milano si scrive con la m minuscola

13 Ago

Alla fine quando devo parlare di Milano mi sento sempre a disagio. Non so perché, o meglio, so perché, solo che non voglio ammetterlo. Il fatto che io rimanga costantemente soggiogato dalla città ha decisamente a che fare con situazioni e persone del mio passato, pietre miliari della mia indipendenza personale almeno durante l’adolescenza. Ci metto decine di minuti prima di avere una stesura iniziale definitiva del post che parla di Milano, perché ho sempre troppi pensieri in testa e non so mai come metterli in ordine. Così alla fine ho deciso che devo difendermi, così come Diane Arbus si difendeva dal mondo dietro l’obiettivo della macchina fotografica. Prima di tutto chiamerò la città “milano” con la lettera minuscola per sminuirla psicologicamente; poi scriverò il post come se fosse una lettera aperta che dedicherò a M., che non è milano ma la persona che mi ha accompagnato durante la mia ultima visita e che – accidenti a lei – sa sempre come farmi incazzare e come farsi perdonare.

 

Caro M.,

alla fine sei riuscito a mostrarmi una scatola adatta al tuo ego. Ti ho sempre visto fuggire con lo sguardo oltre i luoghi che abbiamo visitato insieme, nascondendo tutto alla coda dell’occhio, anche quello che già era passato da solo pochi secondi. Sapevo sarebbe stato così, sapevo che milano ti avrebbe contenuto in qualche modo e nonostante la tua presenza costante in città ho capito che tutto sommato spaventa anche te, non solo me. Abbiamo osservato in fretta un pezzo di periferia, il nuovo quartiere di cristallo pieno di grattacieli modernissimi come “finalmente milano merita”, come mi hai detto tu. Li abbiamo guardati in auto, mentre scappavamo verso zone più tranquille, meno grigie e più verdi. Casa tua, le colline della Brianza.

Hai voluto mostrarmi i posti dove sei cresciuto e dove hai formato quel carattere di merda che ti ritrovi e che mi piace ritrovare ogni volta che ti vedo. A Monza mi hai raccontato un sacco di cose sulla città, che non se la crede come milano, che è più tranquilla di milano, che la gente va in bicicletta (non come a milano). Già, anche lì, con il tuo sorriso ed i tuoi occhi più distesi hai comunque pensato a milano. Solo quando siamo tornati alle origini della tua professione hai cambiato atteggiamento.

Stefano, Stefania e Barbara ti hanno accolto come fossi loro figlio e, in qualche modo, tu sei figlio loro, professionalmente parlando. Mi hai detto che ti hanno insegnato tutto, che ti hanno dato delle basi e ho visto da come vi guardavate che ci sono affetto, stima e riconoscenza reciproci tra voi. E’ stato bello vedere anche questo. Mi porti sempre là dove la cucina è prima di tutto amore per le persone che la fanno e poi amore per il prodotto che si mette sul piatto, diretta conseguenza di tutto questo trasporto.

Di ritorno in città abbiamo incrociato un’altra parte di te, una parte recente e importante che ha scottato e brucia ancora un po’. Un gomito sulla resistenza del forno, tenuto più a lungo dell’arco riflesso. Passare nella città quasi deserta e chiacchierare in tre di cose senza senso, senza capo né coda e ridere di sciocchezze mentre l’aria si fa più fresca e l’ebbrezza cede alla razionalità del ritorno, agli orari prestabiliti di un treno in partenza e ad un ennesimo saluto fuggevole, a te e a milano.

Siete dei maledetti stronzi tu e lei perché sapete che sono sensibile verso entrambi e nonostante tutto giocate a nascondino con me. Io conto fino a 100, vi sento correre attorno, so dove potreste nascondervi e quando mi giro ed è l’ora di cercarvi mi accorgo che ci sono zone del territorio che non ho mai visto, più ombre di quante ne abbia immaginate e venirvi a scovare è sempre impossibile.

Parlo e agisco come chi non ha mai visto nessun’altra parte del mondo se non casa sua e da uno dei due dovrò pur correre un giorno per fare in modo che io non mi debba più sentire disfatto, ogni volta che salgo sul treno per tornare indietro.

Brunch domenicale

8 Lug

Ci sono momenti dell’anno in cui la pianificazione assume, per assurdo, contorni definiti solo durante il fine settimana. Sì, le ferie mi vedono molto più spesso organizzatore del weekend piuttosto che della settimana, tanto lo so che lavorano tutti. Ebbene, domenica scorsa ho deciso assieme a tre amici di lanciarmi e provare con loro un posto nuovo. Avevo voglia di brunch e via Saragozza ha scelto per me, portando alla mente il ricordo di un bar che avevo intravisto tempo addietro. Qualcuno vuole fare colazione, qualcuno vuole mangiare salato, qualcuno vuole fare brunch.

Saragoza 145, questo il nome del locale, è un wine bar che si trova su via Saragozza a Bologna, poco fuori porta. Dai viali ci si inerpica sulla leggera salita porticata che costeggia la via; si guardano le vetrine dei negozi, si passeggia all’ombra, si osserva la Bologna bene che abita nei quartieri alti e meno di 10 minuti dopo si arriva a questo locale con qualche tavolino di fuori, in ferro lavorato. Una bella lavagnetta ci aggiorna sul fatto che sì, è domenica e sì, siamo in orario da brunch.

A me sembra una casa privata!

A me sembra una casa privata!

Decidiamo di sederci dentro, nonostante sembra faccia caldo, apparentemente. Che dire, smentito: due locali spezzati dalla cucina, un piccolo corridoio unisce le sale principali, massimo 35 coperti. Pareti quasi del tutto spoglie, un buon grigio scuro, tavoli in legno grezzo di recupero, sedie alcune di legno e alcune di metallo lavorato. Ci sono poche finestre ma danno tutte su folti alberi che coprono i palazzi bassi appena dietro. Non solo fuori, anche dentro ci sono due alberi su un lato corto. Lampadari bassi, coperti da paralumi in tela bianca, altissimi. Vento, tanto vento fresco che accompagna una musica soft da lounge bar.

Ci sediamo e ci raccontano la formula: 15€ comprensivi di buffet e una bevanda a scelta tra acqua, succo d’arancia o caffè. Il buffet: il salato impera e su di esso prevalgono le spezie. Molte, moltissime varianti, prevalentemente fredde, che andavano dalla torta salata all’insalata di pollo al curry con mandorle. Verdure miste saltate con i semi di sesamo, mix di riso e verdure, pane alle olive, grissini con farina di mais, salsiccia panata con qualche seme misto aromatico. Ci stavano persino i gamberi.

Che dire poi del dolce: decisamente più defilato del salato ma altrettanto interessante. Pochi sapori esotici, dove il salato imperava invece, piuttosto incentrati sull’italian style. Cornetti dolci, marmellate Rigoni di Asiago, diversi tipi di miele, budino alla vaniglia con fragole. Qualche cupcake non troppo pastoso ma abbastanza pesante, soprattutto per chi come me si è ingozzato prima.

Poca gente, niente chiasso nemmeno dal piatto, rigorosamente in carta riciclata con posate di legno. Niente tovaglie, solo tovagliette tonde ben intonate con i tavoli, colori poco appariscenti, sui toni del rosso, bordeaux e nero. Intimo il locale, riservata la cucina: a vista, grazie a un pertugio rettangolare su tutta la lunghezza della stanza, come a dire “ci siamo, lavoriamo ma non vi diamo fastidio”.

Quando vado in un locale poi faccio sempre caso al bagno. In questo caso era ben pulito, piccolo ma non claustrofobico, anche in questo caso sono state fatte alcune scelte di design pure per i sanitari senza però gettarsi nel qualunquismo alla Ginori. Dai, promosso.

Note di merito:

– toni scuri, rilassanti

– cucina salata ben variegata

– posizione defilata, lontana dal caos cittadino

– immagine ben convogliata

Potrebbe andare meglio:

– musica meno lounge, volume più basso

– un po’ più varietà nel dolce

– bevande poco interessanti incluse nel prezzo

– sito internet poco aggiornato

Adesso qualche contatto, giusto per andare a trovarli.

Saragoza 145, via Saragozza 145 – Bologna

Sito internet: http://www.saragoza145.it

Facebook: Saragoza145

Citazione

Cucina borghese

7 Lug

Invitare qualcuno a pranzo vuol dire incaricarsi della felicità di questa persona durante le ore che egli passa sotto il vostro tetto.
Anthelme Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto, 1825

Brillat-Savarin, diplomatico e politico francese sotto la Rivoluzione, scrisse il suo testo di aforismi sul gusto ormai quando la cosiddetta “cucina borghese” aveva già suggellato il suo patto di fama con l’Europa.

La cucina borghese fu il contrasto netto e risoluto alle dissipazioni culinarie del secolo precedere: ad una gastronomia incentrata sulle cotture esagerate e sulla copertura dei sapori naturali dei cibi si sostituisce un’attenzione agli aromi naturali e agli accostamenti dotti e ponderati. E’ la nascita della cucina moderna.

Crescionda

3 Lug

Mi perdonino tutti coloro i quali sono affezionati al binomio ricetta-regione di appartenenza. Scuoteranno la testa per la mia scelta sbagliata ma ho un motivo valido: questo dolce mi è stato imposto da Anna, madre di Andrea, la quale ci delegò nel realizzarlo per la cena. Perciò ecco, in verità questo è un ulteriore ringraziamento alla famiglia B. che mi ospitò.

CRESCIONDA (almeno 10 persone)

Tempo: 40 minuti

30 minuti sono di cottura, per il resto si tratta solo di amalgamare senza prestare attenzione. Almeno, un minimo di attenzione ci vuole.

Difficoltà: bassa

Come dicevo prima: amalgama, versa, inforna. Fa tutto lei.

Costo: basso

Se vi dico che la cosa più cara sono gli amaretti è dir tanto. Ah sì, ci sta il liquore, ma quello si riutilizza anche per altri scopi.

Ingredienti

– 4 cucchiai di farina 00

– 4 cucchiai di zucchero semolato

– 4 uova intere

– 100 grammi di cioccolato fondente grattugiato

– 200 grammi di amaretti

– 500 ml di latte intero

– un bicchierino di mistrà

Le scuse che ho anticipato riguardavano il fatto che in verità questo dolce ha origini umbre e non marchigiane, venendo da Spoleto. Inoltre è un dolce che poco si adatta al periodo estivo, dato che ha origini carnevalesche. Pazienza, del resto non lo faccio per onore dell’alta cucina. Cominciamo.

Molto bene, partiamo subito dicendo che è dannatamente facile, così spavento tutti i lettori. Prendete le uova e sbattetele insieme allo zucchero, finché il composto non diventa spumoso. Prendete poi un amico e costringetelo a sbriciolare gli amaretti, nonché a grattugiare il cioccolato fondente. Andrea in questo caso è stato il fidato braccio destro.

Ora versate nel composto gli altri ingredienti in quest’ordine: latte, farina, amaretti, cioccolato. Mescolate per bene finché non sarà tutto ben distribuito. Mentre accendete il forno a 180° vi racconto come salterà fuori il dolce. Ebbene, a dire il vero che il composto sia amalgamato alla perfezione poco ce ne cale, dato che d’un tratto gli ingredienti si separeranno come l’acqua con l’olio. Gli amaretti sbriciolati andranno in superficie, sul fondo si stratificherà il cioccolato fuso e il resto del pappone sarà il dolce vero e proprio. Una piccola magia non c’è che dire, non vi sto nemmeno a spiegare perché.

Molto bene, adesso dobbiamo soltanto aggiungere il liquore. Abbiamo scelto il mistrà perché era in casa; ciò non toglie che altri distillati possano andare benissimo. Metti la sambuca, metti il Borghetti, metti quel che ti pare. Magari non i macerati come il limoncello o il nocino, il resto può andare bene. Qualcuno ci aggiunge anche dello zeste di limone grattugiato ma noi ce ne freghiamo e lo evitiamo, così il dolce non ha un sapore troppo forte d’estate, alla faccia del caldo (che non c’è stato).

Versate finalmente il composto dentro una bella tortiera possibilmente imburrata e infarinata e infornate il tutto per 30 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare, così si solidificherà. Il risultato dovrebbe essere questo più o meno.

Quel che dovrebbe venire fuori

Quel che dovrebbe venire fuori

Sì ecco, perdonate la bassa qualità dell’immagine, dovevo catturare la scena in un attimo. Suvvia, l’aspetto rustico si riflette anche nella fotografia no?

Considerazioni finali

Che dire, una ricetta paesana molto semplice ma che è risultata azzeccatissima con il clima tempestoso dei miei giorni di vacanza. Il cioccolato fa sempre tanto calore. E’ stata apprezzata, sì. Mangiatela piano, è pesante e un po’ budinosa.

Accompagnamento: mistrà

La regola è: se metti del liquore nel dolce tenta sempre di ripresentarlo come accompagnamento, se lo richiede il pubblico. Il dolce lo richiamerà a gran voce non appena lo assaggerete.

Questione di inflessione

27 Giu

Carpe diem è l’espressione migliore per indicare il fortunato periodo nel quale mi sono trovato alla fine del mese di giugno. Un rallentamento dal continuo susseguirsi delle emozioni di Performing Gender ha coinciso con le ferie gentilmente offerte dalla tigelleria. Ne ho bellamente approfittato così per andare da Andrea, giù nelle Marche, ospite a casa sua e della sua famiglia.
Per me questa sosta volontaria è stata come tornare alle origini, dato che un pezzetto di me viene dalle terre marchigiane. Il treno scende in fretta lungo la costa, tanto da permetterci di vedere paradossalmente il mare a poche decine di metri da un finestrino e le colline verdi e ocra dall’altro. Due paesaggi diversi e concomitanti, che fanno a cazzotti un po’ anche nella loro cucina: carne sui colli e pesce sulla costa. Abbondanza di sapori e calorie in entrambe le versioni, s’intende.
Con il gusto del ricordo non posso che essere riconoscente fino in fondo per questa vacanza, la mia gratificazione all’idea di calore familiare che le Marche mi hanno sempre trasmesso. Vale la pena raccontare il mio soggiorno, lo faccio per me, per dare una forma ai sentimenti liquidi che mi scorrono ancora dietro gli occhi.
Appena aperta la porta di casa la prima parola che mi salta in testa è “tantissimo”. In quell’appartamento a due piani ci vivono chiaramente tantissime persone, che condividono tantissime esperienze, immortalate in tantissime foto che ritraggono tutte quelle tantissime persone. Sui mobili, sugli scaffali, sui pensili ci sono tantissimi oggetti diversi, la cucina, che ha tantissime ante chiuse, ha anche tantissime pentole di rame appese e nelle credenze ci sono tantissimi piatti e tantissimi bicchieri, più di quanti sono i membri della famiglia. Di sopra la situazione si ripete: tantissime stanze, tantissimi libri sugli scaffali, tantissime foto. Per assurdo anche tantissimi spazzolini da denti in bagno e tantissimi asciugamani nelle scansie chiuse.
Non posso descrivere altrimenti la mia prima impressione, ci stava tantissima vitalità dentro quelle pareti, che rimbalzava sulla carta da parati, si rifletteva sulle superfici delle foto appese e spostava gli oggetti.
Mi accolgono almeno 3 persone e uno shitsu scodinzolante. Entro e mi trovo in famiglia, vengo trattato come tale e nient’altro, sono ospite solo sui primi tre scalini dell’ingresso e poi la mia lingua si scioglie sotto i colpi delle consonanti morbide del fermano. “È questione di inflessione” mi dice Andrea – “non abbiamo mica un vero dialetto, barliamo un boco candenzado ma niente di piú”. Ed è vero, la lingua batte meno sulle consonanti dure preferendo una morbidezza naturale e pastosa, che un po’ somiglia a questa cucina pedemontana, fatta di carni saporite, salami morbidi e formaggi semi-stagionati.
Mangio, aiuto, mi rilasso, osservato dai quattro figli della famiglia B. che si guardano, si sorridono e mi sorridono dalla carta lucida e patinata delle foto che attraversano almeno tre decenni. Vedo i colori mutare, le età cambiare, mi diverto a riconoscere le persone dai tratti somatici mentre aspetto che mi chiamino a tavola.
Ecco, a tavola non si mangia soltanto e non si guarda la tv, si discute sulla cronaca nazionale, si raccontano fatti personali, si chiacchiera di esami, di latino, di fisica, si vive di persona quel legame forte e familiare che le foto hanno suggerito fino a poco prima. Io intervengo ma soprattutto osservo incuriosito e ascolto nomi di persone che non conosco, citati da una mamma che informa il figlio fuori sede di ritorno in terra natia per qualche giorno dei cambiamenti occorsi al paese, dove a cambiare di solito sono prima le persone che le cose.

Non sono abituato a mangiare con così tante persone sedute alla stessa tavola e che condividono così tanti aspetti positivi e negativi, trattandoli con la vitalità e la curiosità delle persone che si vogliono bene e che fanno spallucce ai preconcetti, preferendo esporsi anche in presenza di uno sconosciuto come me. Mi sono sentito un po’ come un figlio aggiunto al quale non è dovuto nulla ma che, insomma, non lo si può mica lasciare in un angolo.

Mi rincresce lasciare questa terra, anche se ci sono rimasto per poco tempo. Mi sento di abbandonarla più forte e consapevole, con un senso di appartenenza forte che non pensavo di poter sviluppare in soli quattro giorni; eppure sento ancora adesso, che sono partito, tutto il calore che una famiglia non mia è riuscita a darmi e che la stagione estiva ha deciso di non dimostrare. Un calore diverso, più mio, interiore.

La parabola del sasso lanciato

16 Apr

Quando ero piccolo e mi trovavo in riva al mare con mio nonno o con mio padre, ero spesso tentato di fare il gioco del sassolino che salta sull’acqua. Passeggiavo a testa china, alla ricerca di quella pietra sottile e piatta ideale affinché il gioco potesse riuscire. Non mi accovacciavo mai per sporcarmi le mani, non serviva, camminavo a testa bassa e ne trovavo a bizzeffe di sassi piatti. La verità è che tutti i ciottoli sulla riva erano più o meno piatti, la spiaggia marchigiana a ridosso del Monte Conero è fatta di ghiaia a grana grossa e l’azione levigante del mare è costante e precisa, non si faticava mai nell’impresa.

Così, con il mio bel sasso levigato, mi mettevo in posizione e tiravo a pelo d’acqua, con la testa leggermente piegata e il movimento rapido del polso. Con il passare del tempo e il susseguirsi delle prove sono migliorato, tuttavia mai sono andato oltre i due, tre balzi. Il mio sasso partiva rapido e perdeva velocità con l’attrito dell’acqua, troppa velocità. Mio nonno invece, ancora nel pieno delle sue forze di uomo di mezza età, faceva quel movimento secco e tac-tac-tac-tac… almeno cinque o sei salti al sasso li faceva fare e questo si perdeva lontano, sprofondava là dove io di sicuro non toccavo coi piedi, dove non mi avventuravo mai.

Non ho mai capito dove sbagliassi, semplicemente perché mai l’ho chiesto a chi di salti se ne intendeva così tanto. L’orgoglio di un bambino è profondo, nulla può permettergli di scendere a patti con l’errore ed il bisogno incessante di inciampare in modo empirico, diventare grande per poi incespicare verso un tipo diverso di errore, più emotivo che fisico. Ciò che temiamo – o almeno io tem(ev)o – lì per lì è il pericolo della conseguenza del fare bene le cose. Cosa succede se, prima di tentare un’impresa, decidiamo di informarci a dovere sul processo? Probabilmente riusciremo nel nostro intento ed il risultato sarà non dico ottimo ma sicuramente nemmeno disastroso. Per un bambino però la cosa più importante non è la buona riuscita dell’impresa, quanto piuttosto la dimostrazione pubblica che quel risultato, per quanto apocalittico possa essere, è suo e suo soltanto, accollandosi la greve responsabilità dell’azione e molto spesso dell’errore. Non si guarda indietro, non si impara dai propri errori perché in sostanza non si analizzano i processi intrapresi.

Ecco, io ammetto di essere un cuoco bambino. Sono pionieristico nei confronti delle mie stesse conoscenze ma voglio fare da me senza chiedere aiuto a nessuno. Ciò mi riempie di fragilità e di quella forza primigenia del mettere le mani in pasta. Certo, mi informo sulle procedure e le attuo però alla fine faccio da solo e puntualmente sbaglio qualcosa. Ho 26 anni (quasi 27) e per fortuna so che a quasi ogni sbaglio esiste rimedio, il problema però sono le conseguenze. Come un bambino, sottovaluto le conseguenze delle azioni ponendo l’attenzione sull’idea che il prodotto ottenuto è di mia produzione. Quasi mai faccio la ricetta due volte, non mi dà piacere ripetere il già visto, mi stanco facilmente. Penso stia qui il discrimine sul diventare adulti, saper sospirare e prendere in mano le cose con più cautela e meno impeto rispetto a ciò che si faceva precedentemente, in favore di un risultato meno eclatante ma più utile, le cui conseguenze possano innescare altri processi ed altre conseguenze.

Sapete cosa? Ho il timore che questo mio approccio empirico-entusiasta non influenzi solo la cucina ma tutto il mio modo di intendere la mia vita: lavoro, affetti, sentimenti. Accidenti.

Nota bene: la ricetta del prossimo post terrà conto di ogni singolo errore che ho riscontrato nella preparazione e le sue dirette conseguenze sul risultato. Un esercizio verso la consapevolezza che per far bene le cose è necessario guardarsi indietro.

Flan

13 Apr

FLAN

Tempo: 1 ora e 15 minuti

Una preparazione rapida e semplice, una cottura leggermente più lunga.

Difficoltà: bassa

Niente di che: mescola, versa, scalda, inforna.

Costo: medio?

Dipende, se volete usare alcuni ingredienti oppure i loro rispettivi succedanei. Io direi che il costo non supera la decina di euro.

Ingredienti

– 1 litro di latte intero

– 250 ml di panna fresca

– 50 grammi di farina 00

– 50 grammi di maizena

– 250 grammi di zucchero semolato

– 5 tuorli d’uovo

– scorza grattugiata di limone

– vanillina o bacca di vaniglia

Premessa: ho trovato questa ricetta sul sito di un conosciutissimo portale italiano di cucina che ha il nome di una nota spezia costosa e del suo relativo colore. Diciamo che faccio un omaggio alla loro versione di questo dolce, il fatto è che l’ho trovato molto buono e fresco.

Ah! Gli ingredienti, che belli!

Ah! Gli ingredienti, che belli!

Prima di tutto un po’ di discernimento su questo prodotto che sembra avere origini diverse, aderire a scuole culinarie nazionali differenti e con risultati che travalicano il confine tra dolce e salato con una buona facilità. Quello che sappiamo per certo è che il termine ha una derivazione antica, risalente al Medioevo. Ciò che accomuna tutte le ricette che rientrano sotto il nome “flan” è la cremosità del contenuto, dolce o salato che sia (ad esempio in Italia è prevalentemente salato, in Portogallo si avvicina di più al pasteis). Il flan che andiamo a fare è invece del tutto dolce, a base di latte e con un deciso sapore di vaniglia, più simile ad una crostata con un budino dentro. Un budino dall’irresistibile compattezza diciamolo. Il flan è un dolce dal forte potere rinvigorente, ideale per chi fa sport e pratica una vita movimentata.

Molto bene, iniziamo la preparazione. Per prima cosa mettiamo sul fuoco i tuorli d’uovo insieme allo zucchero e cuociamo a fuoco molto basso. Gioco forza sarà rallentare la cottura delle uova, in favore della caramellizzazione dello zucchero. Il risultato dovrebbe essere un composto omogeneo, molto morbido e chiaro. Una volta prodotta una cosa simile alla foto qui sotto, andiamo ad aggiungere la farina e la maizena, ben setacciate (sennò si formano i grumi e noi non lo vogliamo).

Io che mescolo le uova che si mescolano allo zucchero che si mescolano al teflon della pentola

Io che mescolo le uova che si mescolano allo zucchero che si mescola al teflon della pentola

Nota: data la forte presenza di ingredienti secchi in questa fase, potrebbe capitare di produrre un composto dall’alternativa forma sferoidale, con irresistibili tendenze solide. Dato che la ricetta non considera questo risultato quale punto ottimale di arrivo per la fase attuale, potete aggiungere un po’ di albume e tornare perciò alla consistenza morbida.

Bene, adesso aggiungiamo a filo il latte e la panna, i quali produrranno un incantevole aroma che tanto ricorda le energie mattutine. Una volta ben sciolti gli ingredienti, grattugiamoci dentro la buccia di limone ed aggiungiamo la vanillina. Per chi ama i sapori naturali ed ha passione per gli ingredienti non trattati, consiglio di usare limoni di Sorrento e di sostituire alla vanillina una bacca di vaniglia, opportunamente incisa. Avremo infine una cosa così.

L'incantevole composto

L’incantevole composto poco composto

Adesso, mantenendo il composto sul fuoco, mescoliamo continuamente senza sosta finché il tutto non si raddensa (una ventina di minuti circa). Spegniamo ora il fuoco, prendiamo la pasta sfoglia e stendiamola dentro una bella tortiera, meglio se alta e stretta. Una da 24 cm andrà benissimo. Punzecchiamo con i rebbi di una forchetta la pasta e adagiamoci dentro il composto. Ah, una nota per quegli adorabili buontemponi dei naturisti: togliete la bacca di vaniglia prima di versare.

Il cremoso finale prima dell'infornata

Il cremoso finale prima dell’infornata

Inforniamo a 170° per circa 60-65 minuti. Facciamo ben attenzione perché la superficie tenderà a brunirsi molto molto in fretta. Soluzione: teniamolo sul ripiano più basso del forno e, nel caso questo continui a scurirsi, attiviamo la cottura solo sulla griglia inferiore per una decina di minuti. Insomma, stateci dietro, non uscite di casa a fare shopping nel frattempo. Quando sarà cotta sfornatela ma non sformatela, deve riposare e soprattutto compattarsi (ricordate che alla fine è un budino). Una volta raffreddata, mettetela in frigo a sedimentare. Tempo gente, ci vuole tempo.

Ecco il risultato finale. Trovate le differenze nella qualità dell'immagine rispetto alle precedenti

Ecco il risultato finale. Trovate le differenze nella qualità dell’immagine rispetto alle precedenti

 

Considerazioni finali

Il flan francese è una ricetta dal marcato sapore di latte e con una simpatica presenza scenica, dal deciso color del grano. Il suo profumo di vaniglia è l’ideale per chi vuole iniziare una giornata con il sorriso. E’ un dolce di sicuro impatto su chi vuole ingrassare nutrire lo spirito e avere energia per le proprie scorribande quotidiane. Con la sua marcata scioglievolezza, il flan è un goloso espediente per fermarsi durante il pomeriggio ad assaporare un po’ di Francia e concedersi un momento di tranquillità. Potete servirlo con una spumosissima panna montata o del profumoso cioccolato fondente fuso.

Accompagnamento: purga    idraulico liquido     soda caustica      niente

E niente, non si accompagna a niente. Punto.

Diplomazia e lessico dei blog di cucina

10 Apr

Viviamo in un periodo storico (mi auguro decisamente breve) nel quale ci sono non solo delle parole tabù, ma addirittura dei veri e propri argomenti di conversazione che mai e poi mai andrebbero citati. Immaginare di unire queste parole-mai-dette ai canali di comunicazione digitale usuali diventa perciò un’impresa talmente ardua da richiedere un enorme sforzo di diplomazia, pena la perdita assoluta di efficacia della comunicazione. Sono teorie e teorie di pesantissimi sipari che si chiudono su conversazioni dette a bassa voce.

Quando parlo di argomenti off-limits mi riferisco ad esempio alla cucina. Esiste come una chiara e spasmodica ossessione nei confronti dei chili di troppo, delle maniglie dell’amore e del cibo “poco” sano. Io dunque, che un po’ per lavoro di comunicazione dovrei occuparmi e che tengo le fila di un blog fatto prevalentemente di ricette dolci dovrei avere vita particolarmente difficile. Chi segue il blog con una certa regolarità però sa che io da tempo ho abbandonato l’idea di schivare queste pesantissime tende nel procedere con il mio hobby culinario, decidendo pertanto di prenderle direttamente in faccia, oppure di aprirle tutte assieme. In altre parole: me ne sono sempre fregato della diplomazia dolciaria, preferendo ad essa una chiara e semplice idea, il 90% dei dolci è fatto di zucchero, accettalo.

Navigando tra numerosi blog e forum di cucina invece noto sempre più la tendenza a dichiarare nelle intestazioni delle ricette una realtà alternativa, fatta di particelle avversative o di qualità complementari. Della serie, dire “sei una gran brava persona” ad un ragazzo che non spicca per doti estetiche. Non è bello MA è simpatico. Ecco, un’avversativa.

Io non ho mai amato questo passare per il sottile un po’ gratuito, passando così la bomba in mano al povero lettore che, magari ignaro e alle prime armi, si ritrova a cucinare una sachertorte dove al burro è stata sostituita la margarina (più leggera) ma al quale non è stato detto che c’è una discreta dose di cioccolato nell’impasto. E che magari la glassa non è fatta di coriandoli e pillole bruciagrassi ma di zucchero e ulteriore cioccolato fuso. Parliamoci chiaro, se un pezzo di torta “si scioglie in bocca” non vuol dire che è fatto di ghiaccio, piuttosto che contiene una discretissima dose di burro che – magia! – con il calore si scioglie. Certo, esistono anche dolci con una dose ridotta di grasso (tipo quella che ho descritto recentissimamente qui); sono pochi, cervellotici e alla fine uno per costrutto mentale fa prima a prendersi una fetta di pan di spagna allo yogurt.

Così come non capisco la mania di voler per forza sostituire ingredienti classici con succedanei a basso contenuto calorico. Un conto è avere delle intolleranze, per non parlare delle allergie; un altro conto è sentire dentro di sé il bisogno di rinunciare alla ricetta originale in favore di un prodotto quasi uguale ma i cui ingredienti magari hanno reazioni diverse o addirittura profumi diversi. Chi si approccia alla cucina dolce per la prima volta dovrebbe innanzi tutto provare la ricetta originale e poi semmai cercare di sostituire, se il fine ultimo è evitare la disfatta dei propri fianchi. Sono deliberatamente disfattista: se non vuoi rinunciare alla linea, limita le dosi o la frequenza con la quale mangi dolci.

Voglio fare una prova: la prossima ricetta sarà deliberatamente grassissima MA la descriverò come se fosse piena di verità e qualità alternative. Così ho deciso.

Torta degli angeli

1 Apr

Io, che non amo molto gli anglicismi soprattutto quando so esistere un corrispettivo lessicale in italiano, ho deciso di preparare un dolce d’oltreoceano. Sarebbe come tirarsi la zappa sui piedi da soli, però ho un alibi: dovevo fare di necessità virtù dato che a tavola a Pasqua abbiamo una persona vegetariana, una intollerante ai latticini e una allergica al lievito (sia chimico che naturale). Non potevo fare altro che questo, oppure non fare decisamente il dolce e proporre del semplice vino (che ho preso comunque, crepi l’avarizia).

TORTA DEGLI ANGELI

Tempo: 1 ora e 15 minuti

Semplice, rapido, leggero. Figata. 1 a 0 per la torta.

Difficoltà: molto bassa

Vi dico solo che la parte più difficile sta nel dividere gli albumi dai tuorli. Che vi basti come difficoltà. 2 a 0 per la torta.

Costo: molto basso

Anche in questo caso, la cosa più costosa sono le uova. 3 a 0 per la torta.

Ingredienti

– 12 albumi d’uovo (sui 400-450 grammi)

– 250 grammi di zucchero a velo vanigliato

– 150 grammi di farina per dolci

– bacca di vaniglia (o una bustina di vanillina)

– cremor tartaro (o lievito chimico)

– un pizzico di sale fino

Prima di spiegarvi la ricetta vi propongo il solito pappone storico, perché non sia mai che si dica in giro che faccio ricette senza cognizione di causa. Bene, dovete sapere che l’Angel food cake o italianizzato Torta degli angeli è un dolce di largo utilizzo americano ma di derivazione totalmente anglosassone. Intatti apparve per la prima volta in un libro di cucina che si chiama Boston Cooking-School Cook Book (bello scioglilingua con tutte quelle O), uscito alla fine dell’800 e punto di riferimento della cucina inglese per il secolo successivo. Diciamo che chi lo scrisse (tale Fannie Farmer, una cuoca provetta di professione) ha davvero rivoluzionato la cucina anglosassone, introducendo quell’importante metro che sono le unita di misura: livelli, cucchiai (spoons) e tazze (cups) che sono anche l’attuale sistema utilizzato nei paesi anglofoni. Insomma, prima in Inghilterra si faceva un tanto al chilo, dopo la Farmer tutti a guardare la bilancia. Non solo, Fannie Farmer con il suo best-seller ha introdotto anche le casalinghe inglesi al concetto di procedimento chimico di trasformazione degli alimenti, quindi a cose come l’importanza del tipo di farina, l’indice W di agglutinamento e tante cose bellissime che a noi adesso sembrano ovvie ma che all’inizio del secolo scorso erano novità assolute.

Questa introduzione è importante per capire quanto la torta degli angeli in verità sia un esempio cruciale di tutte quelle belle notizie, laddove si porta esempio pratico delle proprietà principali degli alimenti utilizzati. Facciamo così, ve lo spiego man mano che procedo con la ricetta; sappiate solo che la regola fondamentale è: niente grassi.

Prima di tutto facciamo attenzione agli utensili: una ciotola (meglio se in acciaio o in vetro, le vendono bellamente a basso costo in un famosissimo negozio il cui nome inizia per IK e finisce per EA ma io non l’ho detto), una frusta/sbattitore elettrico, una spatola larga o un cucchiaio grosso in acciaio. L’importante è che questi oggetti siano ben lavati, ben asciugati e assolutamente privi di qualsivoglia detergente. Insomma, non passateci il Nelson Piatti o lo Svalto (volutamente modificati, ndr) alla leggera, strofinate bene e risciacquate. E’ necessario poi che gli albumi siano perfettamente separati dai tuorli, pena la presenza invadente di grassi. Ancora una cosa, setacciate bene le polveri (o ingredienti solidi che dir si voglia), sennò vengono i grumi. Ok, adesso inizio davvero.

Prendiamo gli albumi e iniziamo a montarli a neve. Non appena cominciano a diventare bianchi e spumosi, aggiungiamo il cremor tartaro, che è un importante stabilizzante per la montatura dei bianchi. Digressione: il cremor tartaro è sostanzialmente un acido, grande sostituto del lievito (per chi ne fosse allergico o intollerante) che agisce sostanzialmente sulla struttura dell’uovo, stabilizzandone il gonfiore producendo anidride carbonica (CO2, fondamentale  effetto di ogni lievito). Dopo qualche minuto aggiungiamo lo zucchero a velo e la vanillina. Non facciamolo in una volta sola, prendiamoci il tempo di setacciare le polveri e inglobarle poco alla volta. Possiamo usare la frusta elettrica come quella manuale o, ancor meglio, la spatola. Anche lo zucchero come il cremor tartaro andrà a dare stabilità al composto che, a questo punto, sarà fortemente aumentato di volume, presentando un dolce aspetto colloso stile marshmallow.

Così dovrebbe venire

Così dovrebbe venire

A questo punto fermiamo le macchine elettriche e aggiungiamo, sempre setacciati e ad intervalli di 3-4 volte, la farina e il sale. Usiamo questa volta la spatola per evitare di sgonfiare il composto, facendo movimenti circolari dal basso verso l’alto. La montagna bianca a questo punto cambierà leggermente forma, compattandosi e diventando maggiormente collosa. Cosa succede? Le proteine della farina si uniscono a quelle degli albumi trasformandosi in glutine. Nota bene: usiamo la farina per dolci (ad esempio la manitoba, con un indice W più alto) perché più elastica, tendente a creare un composto più leggero e arioso. Molto bene, amalgamiamo il tutto e lasciamo fermo il composto.

Il composto dentro lo stampo (con carta da forno)

Il composto dentro lo stampo (con carta da forno)

Adesso prepariamo lo stampo. In verità la ricetta “classica” prevede l’utilizzo di uno stampo particolare, una specie di ciambella molto alta e larga sui 24 cm (uno stampo classico da torta occidentale) in acciaio, il quale non andrebbe affatto imburrato (burro = grassi), al massimo foderato con della carta forno. Nel caso non aveste questi materiali, uno stampo qualsiasi va bene, ricordate solo che l’Angel cake aumenta di volume (le uova e l’anidride carbonica, colpa loro). Versate insomma il composto nel vostro stampo e infornatelo per 40-50 minuti a 180°, il forno deve essere già a temperatura, ricordate.

La torta cotta

La torta cotta

Ultima cosa: una volta sfornato il dolce è importante che questo venga capovolto, anche con tutto lo stampo, per evitare che la torta diventi collosa. Una volta raffreddato, staccate infine il dolce aiutandovi con un coltello da far passare rasente le pareti interne della cerniera. Sarà molto semplice, verrà quasi via da sé.

Considerazioni finali

Un vero trionfo della chimica, non c’è che dire. Il risultato è un dolce davvero morbido, completamente privo di grassi (se abbiamo fatto attenzione) e molto gustoso. Spolverato con dello zucchero impalpabile poi è la morte sua. Dovrebbe essere il dolce perfetto per ogni tipo di intolleranza (a meno che voi non siate celiaci, in tal caso si può sostituire la farina normale con quella di riso, nonostante io non assicuri il risultato), nonché un’ottima alternativa al classico pan di spagna come base per dolci più complessi.

Il cremor tartaro può essere sostituito ampiamente con una serie infinita di agenti lievitanti, da quelli naturali (lievito di birra, secco o fresco) a quelli chimici (lievito atomico, classico vanigliato), sino ad arrivare al semplice bicarbonato di sodio (che tra l’altro è uno degli ingredienti del cremor tartaro), magari attivandolo con un cucchiaino di aceto di vino. Sbizzarritevi, è rapido e d’effetto, anche per il suo candore. Del resto perché mai si potrebbe chiamare torta degli angeli?

Torta degli angeli

Torta degli angeli

Accompagnamento: pignoletto frizzante

Un buon bicchiere di vino dolce (ma non troppo) può stemperare la tensione soffice del dolce, aggiungendo quel tocco frizzante che, diciamocelo, non guasta mai.

Giusto qualche link utile:

-per lo stampo tipo americano

– per sapere qualcosa sul testo inglese di riferimento

– per sapere qualcosa su chi ha scritto il libro

Pasqua arriva quando meno te l’aspetti

30 Mar

Pasqua è una di quelle festività comandate che tutti decidono di dover aspettare quando si ha il rimpianto del Natale appena trascorso e che ci si dimentica bellamente quando si è a ridosso. Tipo adesso, io mica me lo ricordavo che ci sarebbero state le vacanze di Pasqua a cavallo tra marzo e aprile; eppure eccole qua, due giorni pieni pieni di vuoto siderale. Idee, luoghi, impegni. Vuoto cosmico e pneumatico. Zero al quoto.

Insomma, che si fa? Di solito io quando arrivo ai limiti della Pasqua vedo attorno a me la diaspora: c’è chi torna in terra natia, chi parte per un viaggetto (di solito quelli fortunati che possono permettersi il ponte lungo), chi resta dov’è. Io modestamente resta dov’è.

Inevitabilmente in questo caso funziona l’effetto Pover Rangers, chi può unisce le forze, racimola qualche spicciolo e parte alla ribalta per raffazzonare un pranzo conviviale. Che poi, diciamocelo, in fin dei conti non è proprio la Pasqua in sé la vera festa, quando il giorno dopo, Pasquetta, ci vede armati di cestini e tovaglie da prato per picnic nei parchi cittadini (o per i più fortunati in montagna, leggesi sempre “ponte lungo”).

Fatto sta che il meteo quest’anno ci dà contro. Benissimo, allora facciamo che la festa è Pasqua stavolta e non se ne parli più. Io, che come ho detto resta dov’è, pratico l’effetto Pover Rangers: dai quattro ai sei commensali per un pranzo contenuto. Ovviamente farò il dolce (lo ammetto, faccio spoiler nei confronti dei commensali ancor prima di presentarmi).

Ora, la domanda è: se ci stanno un vegetariano, un intollerante ai derivati del latte e uno allergico al lievito, che dolce potrò mai fare? Un’idea ce l’ho…