milano si scrive con la m minuscola

13 Ago

Alla fine quando devo parlare di Milano mi sento sempre a disagio. Non so perché, o meglio, so perché, solo che non voglio ammetterlo. Il fatto che io rimanga costantemente soggiogato dalla città ha decisamente a che fare con situazioni e persone del mio passato, pietre miliari della mia indipendenza personale almeno durante l’adolescenza. Ci metto decine di minuti prima di avere una stesura iniziale definitiva del post che parla di Milano, perché ho sempre troppi pensieri in testa e non so mai come metterli in ordine. Così alla fine ho deciso che devo difendermi, così come Diane Arbus si difendeva dal mondo dietro l’obiettivo della macchina fotografica. Prima di tutto chiamerò la città “milano” con la lettera minuscola per sminuirla psicologicamente; poi scriverò il post come se fosse una lettera aperta che dedicherò a M., che non è milano ma la persona che mi ha accompagnato durante la mia ultima visita e che – accidenti a lei – sa sempre come farmi incazzare e come farsi perdonare.

 

Caro M.,

alla fine sei riuscito a mostrarmi una scatola adatta al tuo ego. Ti ho sempre visto fuggire con lo sguardo oltre i luoghi che abbiamo visitato insieme, nascondendo tutto alla coda dell’occhio, anche quello che già era passato da solo pochi secondi. Sapevo sarebbe stato così, sapevo che milano ti avrebbe contenuto in qualche modo e nonostante la tua presenza costante in città ho capito che tutto sommato spaventa anche te, non solo me. Abbiamo osservato in fretta un pezzo di periferia, il nuovo quartiere di cristallo pieno di grattacieli modernissimi come “finalmente milano merita”, come mi hai detto tu. Li abbiamo guardati in auto, mentre scappavamo verso zone più tranquille, meno grigie e più verdi. Casa tua, le colline della Brianza.

Hai voluto mostrarmi i posti dove sei cresciuto e dove hai formato quel carattere di merda che ti ritrovi e che mi piace ritrovare ogni volta che ti vedo. A Monza mi hai raccontato un sacco di cose sulla città, che non se la crede come milano, che è più tranquilla di milano, che la gente va in bicicletta (non come a milano). Già, anche lì, con il tuo sorriso ed i tuoi occhi più distesi hai comunque pensato a milano. Solo quando siamo tornati alle origini della tua professione hai cambiato atteggiamento.

Stefano, Stefania e Barbara ti hanno accolto come fossi loro figlio e, in qualche modo, tu sei figlio loro, professionalmente parlando. Mi hai detto che ti hanno insegnato tutto, che ti hanno dato delle basi e ho visto da come vi guardavate che ci sono affetto, stima e riconoscenza reciproci tra voi. E’ stato bello vedere anche questo. Mi porti sempre là dove la cucina è prima di tutto amore per le persone che la fanno e poi amore per il prodotto che si mette sul piatto, diretta conseguenza di tutto questo trasporto.

Di ritorno in città abbiamo incrociato un’altra parte di te, una parte recente e importante che ha scottato e brucia ancora un po’. Un gomito sulla resistenza del forno, tenuto più a lungo dell’arco riflesso. Passare nella città quasi deserta e chiacchierare in tre di cose senza senso, senza capo né coda e ridere di sciocchezze mentre l’aria si fa più fresca e l’ebbrezza cede alla razionalità del ritorno, agli orari prestabiliti di un treno in partenza e ad un ennesimo saluto fuggevole, a te e a milano.

Siete dei maledetti stronzi tu e lei perché sapete che sono sensibile verso entrambi e nonostante tutto giocate a nascondino con me. Io conto fino a 100, vi sento correre attorno, so dove potreste nascondervi e quando mi giro ed è l’ora di cercarvi mi accorgo che ci sono zone del territorio che non ho mai visto, più ombre di quante ne abbia immaginate e venirvi a scovare è sempre impossibile.

Parlo e agisco come chi non ha mai visto nessun’altra parte del mondo se non casa sua e da uno dei due dovrò pur correre un giorno per fare in modo che io non mi debba più sentire disfatto, ogni volta che salgo sul treno per tornare indietro.

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