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Inerzia e ripresa

8 Ago

Epifania! No, non la festa religiosa, intendo invece il senso letterale del termine; d’un tratto nel bel mezzo delle tue azioni ti accorgi di qualcosa che prima non era chiaro, un ribaltarsi della trama dei nostri pensieri, un sollevarsi di quella rete di abitudini sulla luce di un nuovo evento. Epifania vuol dire questo, svelare, rivelare, scoprire.

L’altro giorno passavo su di un cavalcavia vicino alla stazione dei treni. Al tramono la luce tagliava di netto sui cavi elettrici sospesi, sulle torrette di controllo decorate, sulle archeologie industriali che abbracciano i reticolati. Mi sono fermato per un attimo ad osservare il lento cammino dei binari che da un lato correvano verso le banchine della stazione mentre dall’altro si perdevano improvvisamente, incrociandosi, tracciando linee rette e curve sinuose fino ad un unico punto di fuga lontano, nero, preciso e definito contro l’azzurro cupo dell’orizzonte. Là il mio sguardo si è fermato e i pensieri l’hanno superato, ficcandosi proprio sui binari immaginari che non vedevo più e che potevo solo costruire nella mia testa. Mi sono accorto d’un tratto (epifania!) che una volta ero solito fare cose simili, fissarmi con gli occhi sull’orizzonte distante e immaginare cosa ci fosse al di là del visibile, immaginare me stesso altrove e non per un solo attimo ma per sempre, per ricominciare qualcosa altrove. Di conseguenza mi sono reso conto di aver ri-cominciato a farlo.

Da molti mesi non lascio Bologna, forse per il timore di perderla, di non riuscire a risalire sul treno in corsa che questa città ha sempre rappresentato per me; forse ancora è per il timore di cambiare nuovamente e di gettarmi verso l’inconnu, lo sconosciuto e l’incertezza che ad un 25enne dovrebbero portare curiosità, invece a me spaventano e basta. Certi dicono sia lo spirito dell’abitudine, il dolore sottile dell’inerzia che ti porta ad accettare situazioni poco piacevoli o stimolanti solo perchè siamo già abituati a viverle. Sottostare a queste regole è un male dolce quanto il nettare, è un male semplice e appagante, facciamo spallucce e ci ridestiamo nel caos che la pigrizia ci porta a creare. Mentre tutto cambia, noi rimaniamo uguali a noi stessi.

Oggi, dopo tanto tempo, vi propongo un dolce così, un eterno classico che possiamo cambiare a piacimento, per contrastare l’inerzia dell’abitudine ma senza stravolgere la tradizione degli eventi, chi siamo e cosa rappresentiamo a noi stessi.

TRECCIA SEMIDOLCE RIPIENA

Tempo: 4 ore

Non spaventatevi, la preparazione in sè dura meno di un’ora (sono stato largo, fare con calma è un piacere). A fare il grosso è la lievitazione che, come al solito, rallenterà le vostre azioni ancora di più. Rilassatevi e concedetevi attività alternative mentre aspettate che l’impasto cresca.

Difficoltà: 5 su 10

Nulla di estroso, l’impasto è semplice, basta una mano. La parte più difficile sta nel creare la treccia senza che il composto interno scivoli ovunque, non temete! Tutto verrà da sè.

Costo: medio-basso

Il numero di ingredienti è elevato ma nessuno di essi è particolarmente raro, niente così gonfiati quindi.

Ingredienti

– mezzo bicchiere d’acqua (va bene quella di rubinetto)

– un panetto di lievito di birra

– 550g di farina tipo 0

– 120g di burro morbido

– 120g di latte intero a temperatura ambiente

– 3 tuorli d’uovo

– 80g di zucchero semolato

– marmellata di amarene (gusto facoltativo)

– sale q.b.

Premessa: premuriamoci di togliere dal frigorifero il burro che ci serve, tagliamolo a cubetti e lasciamolo riposare in un luogo ben tiepido, poi vi spiegherò perché.

Prima di tutto dobbiamo preparare il cuore magmatico del nostro dolce, là dove i batteri si moltiplicano e fanno il lavoro sporco: il lievitino. Per i neofiti, tale primo “ingrediente” è il composto (solitamente semi-solido o liquido) contenente il lievito e che viene aggiunto al composto più corposo per i prodotti quali pani, pane brioche e prodotti da forno lievitati in genere. Viene fatto sostanzialmente per due ragioni: accertarsi che il lievito sia effettivamente attivo e, conseguenza, per dare maggiore forza di lievitazione all’intero impasto. Viene fatto ad esempio per il panettone, che è un tipico dolce che abbisogna di una forza di lievitazione immensa, per la grande quantità di farina e burro.

Insomma, il lievitino. Prendiamo l’acqua, rigorosamente a temperatura ambiente e sciogliamoci dentro un cucchiaino scarso di zucchero (contiene gli enzimi necessari alla lievitazione, può essere sostituito con del malto, ma credo lo zucchero sia leggermente più reperibile, ndr). Fatto ciò, sciogliamoci dentro per bene il panetto di lievito di birra e in ultimo aggiungiamo circa 140g di farina. Il composto finale dovrebbe risultare una palla abbastanza collosa, non spaventatevi se si attacca alle pareti, è normale, il glutine contenuto nella farina sta facendo il suo sporco lavoro. Lasciamolo riposare coperto da un panno umido per mezz’ora in un luogo caldo senza correnti d’aria (circa 25°, in poche parole mettetelo in cucina vicino al termosifone ma non troppo).

Mentre aspettiamo che il lievitino cresca di circa il doppio del suo volume iniziale, andiamo con l’impasto vero e proprio. Prendiamo il latte e sbattiamoci dentro i tuorli d’uovo, amalgamiamo per bene. Aggiungiamoci lo zucchero e sciogliamo di nuovo il tutto come si deve. A questo punto mettiamo la farina rimasta, otterremo infine un composto colloso e di un bel giallo paglierino. Ora viene il bello. Vi ricordate che il burro è stato tolto dal frigorifero ben prima di iniziare il processo? Ecco, dobbiamo ora aggiungerlo al composto con la farina e impastare almeno per una decina di minuti. Se avessimo usato del burro freddo credetemi, sarebbero stati necessari almeno 30 minuti (l’ho provato sulla mia pelle o meglio, sui muscoli delle mie braccia). In questo modo il burro si amalgamerà in fretta; alla fine otterrete un composto leggermente più chiaro, sarà pronto quando la palla si staccherà perfettamente dalle pareti della ciotola. A questo punto uniamo il lievitino (sarà passata mezz’ora circa) e uniamolo al tutto. Bene, adesso rimettiamolo nella ciotola e lasciamolo riposare un paio d’ore.

Che si fa in queste due ore? Non saprei, io di solito leggo (in questo caso cerco altre ricette interessanti). Potrei pure proporvi un libro interessante. Mi è stato regalato da un caro amico, P., questo volumetto di “memorie” scritto da Aldo Buzzi, un veterano del cinema nostrano e della letteratura (http://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Buzzi). L’uovo alla Kok (così si chiama il testo, edito da Adelphi) è concepito come una serie di piacevoli conversazioni fatte con un immaginario interlocutore, basate sostanzialmente sulle esperienze culinarie dell’autore, effettuate durante i suoi numerosi e singolari viaggi. Da Parigi all’Oriente passando per la Russia, Buzzi contempla con charme e un tocco di nostalgia le curiosità delle svariate cucine mondiali, senza mai cadere nel trito, nel vezzoso o nell’altezzoso. E’ sia un libro di cucina che sulla cucina, perché spesso le ricette che ci passano sotto il naso non sono altro che annotazioni raffazzonate, senza precisione e a volte con qualche digressione tutt’altro che culinaria. Piacevole, breve e curioso, soprattutto nell’accostamento di certi manuali di cucina.

Oh guarda, sono passate due ore, benissimo. Stendiamo la pasta che avrà triplicato il suo volume. Tagliamo sostanzialmente quattro lunghi serpentelli che ci premureremo di aprire con il mattarello fino a farli diventare della larghezza di 4-5 cm. Cerchiamo di essere il più uniformi possibile perché qui verrà la parte difficile. Facciamo scaldare un po’ la marmellata in un pentolino ma premuriamoci di non farla diventare troppo liquida, oppure colerà ovunque. Fatto ciò, con l’aiuto di un cucchiaino stendiamo sulle nostre strisce di pasta un po’ di marmellata su tutta la lunghezza, premurandoci di lasciare libere le estremità. Fatto ciò cerchiamo di chiuderle lungo la cerniera, facendo in modo che si crei un tubo di pasta e che il ripieno ci stia tranquillamente dentro. Il procedimento richiede un buon grado di attenzione e alcune premure nell’aver steso le strisce una vicina all’altra, perché una volta chiusi i tubolari, dovremo unirli per l’estremità superiore. L’obiettivo è quello di creare una treccia, sovrapponendo in senso orario ed antiorario le varie strisce. Si procede insomma a zig-zag, sovrapponendo la prima striscia alla seconda, poi sotto la terza e sopra la quarta. La nuova prima striscia subirà lo stesso procedimento finché non termineremo lo spazio disponibile, andando ad unire l’ultima estremità in un solo nodo. A questo punto solleviamo DELICATAMENTE per carità la treccia finale, posizioniamola sopra la carta da forno adagiata sulla teglia e creiamo una corona unendo le estremità del dolce. Spennelliamo infine con del burro fuso. La torta va infornata a 180° per 25 minuti circa. Ad ogni modo, controllate sempre, servite tiepida o fredda.

Treccia semi-dolce

Treccia semi-dolce

Considerazioni finali

Come abbiamo visto, il dolce è lineare nella preparazione quanto ostico nella composizione finale. Non lasciamoci scoraggiare dalle difficoltà della treccia, se il composto si travasa perché ci sono dei buchi poco male, avrà giusto un po’ di colore in più in superficie. Il composto di base è poco dolce, quasi neutro, quindi consiglio di usare delle farciture piuttosto decise nei sapori. Io ho usato la marmellata di amarene perché dà una nota amarognola di fondo che ben si adatta all’impasto secco; nulla vi vieta di sostituirla con una più dolce, oppure con del cioccolato (le sorelle Simili la confezionano sotto il nome di Torta Angelica, vi assicuro che è buonissima). Insomma, sbizzarritevi, è un classico della pasticceria semi-secca.

Accompagnamento: latte

Questo dolce è prettamente mattutino, sta benissimo con qualsiasi derivato da colazione all’italiana. Ho scelto il latte perché diciamocelo, inzuppata dentro è la morte sua. Provare per credere.

Infine, gli estremi del libro che abbiamo citato.

Aldo Buzzi – L’uovo alla KokPiccola Biblioteca n. 478 – Adelphi, Milano – 1979