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Confettura di pere e amaretti

27 Mar

Inevitabilmente la ricetta di questo periodo così brioso e primaverile (credici) non poteva che essere un dolce invernale.

CONFETTURA DI PERE E AMARETTI

 

Tempo: 1 ora e 20 minuti

Perderete più tempo a cuocere che a sbucciare e tagliare.

Difficoltà: molto bassa

Vi farete più male a sbucciare e tagliare che a cuocere.

Costo: basso

Ve la caverete con 5 euro di spesa se sapete scegliere la qualità giusta di frutta. Gli amaretti nel caso costano poco. Potreste pure farli in casa… mmmh… mi sa che ho un’altra ricetta in mente per le prossime volte.

Ingredienti

– 1 kg e 200 grammi di pere (a voi scegliere quali)

– 300 grammi di zucchero semolato

– una dozzina di amaretti

– succo di mezzo limone (facoltativo)

– qualche pinolo (facoltativo)

Evviva! Ci voleva un po’ di ritorno alle origini, usare una ricetta talmente facile da poter essere sbagliata in duecento modi diversi. La verità è che per fare la marmellata non esistono davvero delle proporzioni stabilite assolute e inderogabili, non esiste un “Manuale perfetto del bravo marmellatore” e, a quanto io sappia, nemmeno un’Associazione Mondiale Marmellate (AMM, onomatopeico). Tuttavia, due gli elementi fondamentali da tenere in considerazione: il grado di gelificazione della frutta e la dolcezza. Ma andiamo con ordine:

Mi piace quando appiccica. Niente malizia, è vero. L’aspetto colloso e trasparente tipico delle confetture (sì, perché in verità la marmellata è solo quella di agrumi, il resto sono confetture. Un po’ come in inglese la differenza tra marmelade e jam) è dato da una sostanza chiamata pectinaun enzima che si trova in tutta la frutta ma in percentuali diverse. In pole position per contenuto di pectina abbiamo le mele, seguite dalle arance; in terza posizione abbiamo le pesche.

La confettura s’ha d’essere dolce. Inutile schivare gli zuccheri per fare cose dietetiche, la marmellata deve essere dolce. E’ un elemento del mattino, abbiamo tutti bisogno di energie, perciò insomma, facciamocelo andare bene. Sappiamo bene che non tutte le qualità di frutta hanno lo stesso accento zuccherino, anzi, anche all’interno di una stessa tipologia di frutto abbiamo varianti più o meno dolci. Guardate le mele: riconoscereste ad occhi chiusi una renetta da una granny smith.

Tenendo conto di questi due elementi, facciamo attenzione a come dosiamo gli ingredienti. Cominciamo.

Prendiamo le pere, laviamole accuratamente e sbucciamole una ad una. Non togliamo del tutto lo strato esterno, perché in verità la pectina si trova principalmente sulla buccia e non nella polpa. Indi per cui, lasciamone un po’. A questo punto tagliamo le pere a tocchetti, buttiamole in una pentola capiente e sommergiamole dallo zucchero. Dopo una buona mescolata, lasciamo a macerare per una trentina di minuti. Cosa succederà? Le pere a contatto con gli zuccheri rilasceranno la benedetta pectina (e un po’ di succo), la quale si depositerà sul fondo.

Evviva! A questo punto, dopo che avremo avviato il processo di gelificazione, concludiamolo dando il secondo colpo di grazia alla pectina: il calore. Detto in parole povere, accendiamo il fuoco e rigirando, portiamo a bollore. A questo punto abbassiamo la fiamma e lasciamo macerare, mescolando di tanto in tanto, più frequentemente verso la fine della cottura. Il processo sarà più o meno questo:

Confettura di pere e amaretti

Confettura di pere e amaretti

Con il passare del tempo succederà questo:

Confettura di pere e amaretti

Confettura di pere e amaretti

Praticamente la polpa si scioglierà e la confettura assumerà man mano una caratteristica semi-trasparenza. Se non amate le confetture “a pezzi”, vi consiglio di schiacciare un po’ la frutta oppure di passarla al frullatore ad immersione per qualche secondo. Ottenuto il risultato sperato, non ci resta che fare la cosiddetta prova della cucchiaiata, per capire se è pronta la confettura. Insomma, su un piatto freddo mettiamo una noce di prodotto e poi incliniamolo. Se questo scivolerà con lentezza vuol dire che è pronto. Se non scivola l’abbiamo ridotta troppo (ed è una purea), se scappa è ancora liquida e va fatta ridurre ulteriormente.

Adesso sbriciolate qualche amaretto dentro il composto ancora caldo e mescolate. Se lo desiderate aggiungete anche qualche pinolo. Ora prendete un bel barattolo a chiusura ermetica (ne vendono ovunque nei negozi di casalinghi, ma anche nelle catene di supermercati ce ne sono) accuratamente lavato (meglio se bollito) ed asciugato. Metteteci dentro la confettura fin quasi all’orlo e chiudete ermeticamente. Per evitare l’arrembaggio dei batteri si consiglia di far bollire di nuovo il tutto con il composto dentro. Se decidete però di consumarla entro breve allora non lagnatevi con questi passaggi e limitatevi a chiudere il barattolo. Il risultato sarà questo.

Confettura di pere e amaretti

Confettura di pere e amaretti

Considerazioni finali

Come dicevo in apertura, esistono certe variabili di zucchero nella stessa tipologia di frutta. Per la ricetta attuale ho usato le pere williams che sono piccole e molto compatte, meno delle abate di sicuro. Hanno un grado zuccherino che, su una scala da 0 a 5 sta a 2,5 (mentre le abate sono a 1). Ancor meglio (soprattutto per la stagione), sono le kaiser, più dolci (diciamo un 3,5) ma sicuramente più farinose e facili da sciogliere; oltretutto userete meno zucchero.

La scelta degli amaretti, così dolci, vi potrebbe permettere di diminuire drasticamente e ulteriormente la quantità di zucchero. A me piace dolce, quindi me ne sono fregato e via con una classica proporzione 1 a 3 (100 grammi di zucchero ogni 300 di prodotto pulito). Il pinolo spegne un po’ questa dolcezza infinita dando un tocco un po’ amaro, spezzando anche la vellutata sensazione della confettura classica.

Accompagnamento: fette biscottate

Quando penso alla marmellata è indubbio che mi venga in mente la colazione, non si scappa. Se la fetta biscottata è integrale ancora meglio, un contrasto un po’ diverso e sempre meno dolce. Pensa te, faccio la confettura di pere e mi ritrovo a spegnerne la naturale dolcezza con duemila espedienti. Devo essere scemo.

Il mega-oroscopo

19 Mar

Evoluzioni recenti della mia esistenza hanno voluto che decidessi di rimettere in gioco tutta una serie di affermazioni che avevo ben fissato nella mente, nonché una processione di abitudini alimentari/professionali/velleitarie che a loro volta si sommavano e coralmente si autoproclamavano tran-tran. Abitudine, riproduzione sistematica di attività e movimenti programmati nell’arco temporale prestabilito dal soggetto (io).

Esisteva nel 2011 – lo so – un oroscopo ipotetico raccontato su qualche rivista di tendenza tipo Vanity Fair che faceva da sibilla della mia esistenza, almeno per l’anno seguente. Questo mega-oroscopo incentrato sul 2012 diceva sostanzialmente che “i nati Toro alla fine della seconda decade posseggono nelle proprie tasche una manciata sparuta di stellette da appiccicare sulla canonica trimurti Amore-Lavoro-Soldi. A voi la scelta di quante metterne e dove, determinando lo sbilanciamento dei prossimi 365 giorni”.

Bellamente ho deciso di far carriera, perciò le ho messe così: Amore * / Lavoro ** / Soldi **

Con il senno di poi è così che è andata davvero: poca passionalità e più soddisfazioni a lavoro. Soddisfazioni che – diciamocelo – sono arrivate sotto forme non complete ma sufficientemente appaganti.

Il fatto è che non mi è bastato. Una volta raggiunto un livello di soddisfazione adeguato su alcuni fronti, inevitabilmente vuoi riempire anche gli altri vasetti di marmellata e non lasciarli mezzi vuoti solo perché hai finito la materia prima. Aspetto ancora che l’oroscopo del 2013 mi riveli l’esistenza di qualche altra stelletta adesiva da appiccicare dove dico io; ed ammetto un po’  malincuore di volerla mettere su quella voce ancora così sbilanciata che inizia per A (e non è Adipe, che di quello ne ho abbastanza). Poco sopporto scendere a patti con i sentimenti, specie se sono io a doverli esprimere o ad ammettere che ne sento la mancanza, eppure sospiro.
Una lama a doppio taglio. In questo gioco di incastri e di vasi comunicanti, in questa grossa cucina che non sa quanta marmellata cucinare, cosa succederebbe se, con l’ansia di fare troppo, finissero i vasetti? E se un giorno d’un tratto mi ritrovassi con più stellette che spazi per appiccicarli? Di che cosa sarò in grado di fare a meno?
Sarà meglio che io vada a comprare un po’ di frutta.

Inerzia e ripresa

8 Ago

Epifania! No, non la festa religiosa, intendo invece il senso letterale del termine; d’un tratto nel bel mezzo delle tue azioni ti accorgi di qualcosa che prima non era chiaro, un ribaltarsi della trama dei nostri pensieri, un sollevarsi di quella rete di abitudini sulla luce di un nuovo evento. Epifania vuol dire questo, svelare, rivelare, scoprire.

L’altro giorno passavo su di un cavalcavia vicino alla stazione dei treni. Al tramono la luce tagliava di netto sui cavi elettrici sospesi, sulle torrette di controllo decorate, sulle archeologie industriali che abbracciano i reticolati. Mi sono fermato per un attimo ad osservare il lento cammino dei binari che da un lato correvano verso le banchine della stazione mentre dall’altro si perdevano improvvisamente, incrociandosi, tracciando linee rette e curve sinuose fino ad un unico punto di fuga lontano, nero, preciso e definito contro l’azzurro cupo dell’orizzonte. Là il mio sguardo si è fermato e i pensieri l’hanno superato, ficcandosi proprio sui binari immaginari che non vedevo più e che potevo solo costruire nella mia testa. Mi sono accorto d’un tratto (epifania!) che una volta ero solito fare cose simili, fissarmi con gli occhi sull’orizzonte distante e immaginare cosa ci fosse al di là del visibile, immaginare me stesso altrove e non per un solo attimo ma per sempre, per ricominciare qualcosa altrove. Di conseguenza mi sono reso conto di aver ri-cominciato a farlo.

Da molti mesi non lascio Bologna, forse per il timore di perderla, di non riuscire a risalire sul treno in corsa che questa città ha sempre rappresentato per me; forse ancora è per il timore di cambiare nuovamente e di gettarmi verso l’inconnu, lo sconosciuto e l’incertezza che ad un 25enne dovrebbero portare curiosità, invece a me spaventano e basta. Certi dicono sia lo spirito dell’abitudine, il dolore sottile dell’inerzia che ti porta ad accettare situazioni poco piacevoli o stimolanti solo perchè siamo già abituati a viverle. Sottostare a queste regole è un male dolce quanto il nettare, è un male semplice e appagante, facciamo spallucce e ci ridestiamo nel caos che la pigrizia ci porta a creare. Mentre tutto cambia, noi rimaniamo uguali a noi stessi.

Oggi, dopo tanto tempo, vi propongo un dolce così, un eterno classico che possiamo cambiare a piacimento, per contrastare l’inerzia dell’abitudine ma senza stravolgere la tradizione degli eventi, chi siamo e cosa rappresentiamo a noi stessi.

TRECCIA SEMIDOLCE RIPIENA

Tempo: 4 ore

Non spaventatevi, la preparazione in sè dura meno di un’ora (sono stato largo, fare con calma è un piacere). A fare il grosso è la lievitazione che, come al solito, rallenterà le vostre azioni ancora di più. Rilassatevi e concedetevi attività alternative mentre aspettate che l’impasto cresca.

Difficoltà: 5 su 10

Nulla di estroso, l’impasto è semplice, basta una mano. La parte più difficile sta nel creare la treccia senza che il composto interno scivoli ovunque, non temete! Tutto verrà da sè.

Costo: medio-basso

Il numero di ingredienti è elevato ma nessuno di essi è particolarmente raro, niente così gonfiati quindi.

Ingredienti

– mezzo bicchiere d’acqua (va bene quella di rubinetto)

– un panetto di lievito di birra

– 550g di farina tipo 0

– 120g di burro morbido

– 120g di latte intero a temperatura ambiente

– 3 tuorli d’uovo

– 80g di zucchero semolato

– marmellata di amarene (gusto facoltativo)

– sale q.b.

Premessa: premuriamoci di togliere dal frigorifero il burro che ci serve, tagliamolo a cubetti e lasciamolo riposare in un luogo ben tiepido, poi vi spiegherò perché.

Prima di tutto dobbiamo preparare il cuore magmatico del nostro dolce, là dove i batteri si moltiplicano e fanno il lavoro sporco: il lievitino. Per i neofiti, tale primo “ingrediente” è il composto (solitamente semi-solido o liquido) contenente il lievito e che viene aggiunto al composto più corposo per i prodotti quali pani, pane brioche e prodotti da forno lievitati in genere. Viene fatto sostanzialmente per due ragioni: accertarsi che il lievito sia effettivamente attivo e, conseguenza, per dare maggiore forza di lievitazione all’intero impasto. Viene fatto ad esempio per il panettone, che è un tipico dolce che abbisogna di una forza di lievitazione immensa, per la grande quantità di farina e burro.

Insomma, il lievitino. Prendiamo l’acqua, rigorosamente a temperatura ambiente e sciogliamoci dentro un cucchiaino scarso di zucchero (contiene gli enzimi necessari alla lievitazione, può essere sostituito con del malto, ma credo lo zucchero sia leggermente più reperibile, ndr). Fatto ciò, sciogliamoci dentro per bene il panetto di lievito di birra e in ultimo aggiungiamo circa 140g di farina. Il composto finale dovrebbe risultare una palla abbastanza collosa, non spaventatevi se si attacca alle pareti, è normale, il glutine contenuto nella farina sta facendo il suo sporco lavoro. Lasciamolo riposare coperto da un panno umido per mezz’ora in un luogo caldo senza correnti d’aria (circa 25°, in poche parole mettetelo in cucina vicino al termosifone ma non troppo).

Mentre aspettiamo che il lievitino cresca di circa il doppio del suo volume iniziale, andiamo con l’impasto vero e proprio. Prendiamo il latte e sbattiamoci dentro i tuorli d’uovo, amalgamiamo per bene. Aggiungiamoci lo zucchero e sciogliamo di nuovo il tutto come si deve. A questo punto mettiamo la farina rimasta, otterremo infine un composto colloso e di un bel giallo paglierino. Ora viene il bello. Vi ricordate che il burro è stato tolto dal frigorifero ben prima di iniziare il processo? Ecco, dobbiamo ora aggiungerlo al composto con la farina e impastare almeno per una decina di minuti. Se avessimo usato del burro freddo credetemi, sarebbero stati necessari almeno 30 minuti (l’ho provato sulla mia pelle o meglio, sui muscoli delle mie braccia). In questo modo il burro si amalgamerà in fretta; alla fine otterrete un composto leggermente più chiaro, sarà pronto quando la palla si staccherà perfettamente dalle pareti della ciotola. A questo punto uniamo il lievitino (sarà passata mezz’ora circa) e uniamolo al tutto. Bene, adesso rimettiamolo nella ciotola e lasciamolo riposare un paio d’ore.

Che si fa in queste due ore? Non saprei, io di solito leggo (in questo caso cerco altre ricette interessanti). Potrei pure proporvi un libro interessante. Mi è stato regalato da un caro amico, P., questo volumetto di “memorie” scritto da Aldo Buzzi, un veterano del cinema nostrano e della letteratura (http://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Buzzi). L’uovo alla Kok (così si chiama il testo, edito da Adelphi) è concepito come una serie di piacevoli conversazioni fatte con un immaginario interlocutore, basate sostanzialmente sulle esperienze culinarie dell’autore, effettuate durante i suoi numerosi e singolari viaggi. Da Parigi all’Oriente passando per la Russia, Buzzi contempla con charme e un tocco di nostalgia le curiosità delle svariate cucine mondiali, senza mai cadere nel trito, nel vezzoso o nell’altezzoso. E’ sia un libro di cucina che sulla cucina, perché spesso le ricette che ci passano sotto il naso non sono altro che annotazioni raffazzonate, senza precisione e a volte con qualche digressione tutt’altro che culinaria. Piacevole, breve e curioso, soprattutto nell’accostamento di certi manuali di cucina.

Oh guarda, sono passate due ore, benissimo. Stendiamo la pasta che avrà triplicato il suo volume. Tagliamo sostanzialmente quattro lunghi serpentelli che ci premureremo di aprire con il mattarello fino a farli diventare della larghezza di 4-5 cm. Cerchiamo di essere il più uniformi possibile perché qui verrà la parte difficile. Facciamo scaldare un po’ la marmellata in un pentolino ma premuriamoci di non farla diventare troppo liquida, oppure colerà ovunque. Fatto ciò, con l’aiuto di un cucchiaino stendiamo sulle nostre strisce di pasta un po’ di marmellata su tutta la lunghezza, premurandoci di lasciare libere le estremità. Fatto ciò cerchiamo di chiuderle lungo la cerniera, facendo in modo che si crei un tubo di pasta e che il ripieno ci stia tranquillamente dentro. Il procedimento richiede un buon grado di attenzione e alcune premure nell’aver steso le strisce una vicina all’altra, perché una volta chiusi i tubolari, dovremo unirli per l’estremità superiore. L’obiettivo è quello di creare una treccia, sovrapponendo in senso orario ed antiorario le varie strisce. Si procede insomma a zig-zag, sovrapponendo la prima striscia alla seconda, poi sotto la terza e sopra la quarta. La nuova prima striscia subirà lo stesso procedimento finché non termineremo lo spazio disponibile, andando ad unire l’ultima estremità in un solo nodo. A questo punto solleviamo DELICATAMENTE per carità la treccia finale, posizioniamola sopra la carta da forno adagiata sulla teglia e creiamo una corona unendo le estremità del dolce. Spennelliamo infine con del burro fuso. La torta va infornata a 180° per 25 minuti circa. Ad ogni modo, controllate sempre, servite tiepida o fredda.

Treccia semi-dolce

Treccia semi-dolce

Considerazioni finali

Come abbiamo visto, il dolce è lineare nella preparazione quanto ostico nella composizione finale. Non lasciamoci scoraggiare dalle difficoltà della treccia, se il composto si travasa perché ci sono dei buchi poco male, avrà giusto un po’ di colore in più in superficie. Il composto di base è poco dolce, quasi neutro, quindi consiglio di usare delle farciture piuttosto decise nei sapori. Io ho usato la marmellata di amarene perché dà una nota amarognola di fondo che ben si adatta all’impasto secco; nulla vi vieta di sostituirla con una più dolce, oppure con del cioccolato (le sorelle Simili la confezionano sotto il nome di Torta Angelica, vi assicuro che è buonissima). Insomma, sbizzarritevi, è un classico della pasticceria semi-secca.

Accompagnamento: latte

Questo dolce è prettamente mattutino, sta benissimo con qualsiasi derivato da colazione all’italiana. Ho scelto il latte perché diciamocelo, inzuppata dentro è la morte sua. Provare per credere.

Infine, gli estremi del libro che abbiamo citato.

Aldo Buzzi – L’uovo alla KokPiccola Biblioteca n. 478 – Adelphi, Milano – 1979