Archivio | Pre-testi RSS feed for this section

milano si scrive con la m minuscola

13 Ago

Alla fine quando devo parlare di Milano mi sento sempre a disagio. Non so perché, o meglio, so perché, solo che non voglio ammetterlo. Il fatto che io rimanga costantemente soggiogato dalla città ha decisamente a che fare con situazioni e persone del mio passato, pietre miliari della mia indipendenza personale almeno durante l’adolescenza. Ci metto decine di minuti prima di avere una stesura iniziale definitiva del post che parla di Milano, perché ho sempre troppi pensieri in testa e non so mai come metterli in ordine. Così alla fine ho deciso che devo difendermi, così come Diane Arbus si difendeva dal mondo dietro l’obiettivo della macchina fotografica. Prima di tutto chiamerò la città “milano” con la lettera minuscola per sminuirla psicologicamente; poi scriverò il post come se fosse una lettera aperta che dedicherò a M., che non è milano ma la persona che mi ha accompagnato durante la mia ultima visita e che – accidenti a lei – sa sempre come farmi incazzare e come farsi perdonare.

 

Caro M.,

alla fine sei riuscito a mostrarmi una scatola adatta al tuo ego. Ti ho sempre visto fuggire con lo sguardo oltre i luoghi che abbiamo visitato insieme, nascondendo tutto alla coda dell’occhio, anche quello che già era passato da solo pochi secondi. Sapevo sarebbe stato così, sapevo che milano ti avrebbe contenuto in qualche modo e nonostante la tua presenza costante in città ho capito che tutto sommato spaventa anche te, non solo me. Abbiamo osservato in fretta un pezzo di periferia, il nuovo quartiere di cristallo pieno di grattacieli modernissimi come “finalmente milano merita”, come mi hai detto tu. Li abbiamo guardati in auto, mentre scappavamo verso zone più tranquille, meno grigie e più verdi. Casa tua, le colline della Brianza.

Hai voluto mostrarmi i posti dove sei cresciuto e dove hai formato quel carattere di merda che ti ritrovi e che mi piace ritrovare ogni volta che ti vedo. A Monza mi hai raccontato un sacco di cose sulla città, che non se la crede come milano, che è più tranquilla di milano, che la gente va in bicicletta (non come a milano). Già, anche lì, con il tuo sorriso ed i tuoi occhi più distesi hai comunque pensato a milano. Solo quando siamo tornati alle origini della tua professione hai cambiato atteggiamento.

Stefano, Stefania e Barbara ti hanno accolto come fossi loro figlio e, in qualche modo, tu sei figlio loro, professionalmente parlando. Mi hai detto che ti hanno insegnato tutto, che ti hanno dato delle basi e ho visto da come vi guardavate che ci sono affetto, stima e riconoscenza reciproci tra voi. E’ stato bello vedere anche questo. Mi porti sempre là dove la cucina è prima di tutto amore per le persone che la fanno e poi amore per il prodotto che si mette sul piatto, diretta conseguenza di tutto questo trasporto.

Di ritorno in città abbiamo incrociato un’altra parte di te, una parte recente e importante che ha scottato e brucia ancora un po’. Un gomito sulla resistenza del forno, tenuto più a lungo dell’arco riflesso. Passare nella città quasi deserta e chiacchierare in tre di cose senza senso, senza capo né coda e ridere di sciocchezze mentre l’aria si fa più fresca e l’ebbrezza cede alla razionalità del ritorno, agli orari prestabiliti di un treno in partenza e ad un ennesimo saluto fuggevole, a te e a milano.

Siete dei maledetti stronzi tu e lei perché sapete che sono sensibile verso entrambi e nonostante tutto giocate a nascondino con me. Io conto fino a 100, vi sento correre attorno, so dove potreste nascondervi e quando mi giro ed è l’ora di cercarvi mi accorgo che ci sono zone del territorio che non ho mai visto, più ombre di quante ne abbia immaginate e venirvi a scovare è sempre impossibile.

Parlo e agisco come chi non ha mai visto nessun’altra parte del mondo se non casa sua e da uno dei due dovrò pur correre un giorno per fare in modo che io non mi debba più sentire disfatto, ogni volta che salgo sul treno per tornare indietro.

Brunch domenicale

8 Lug

Ci sono momenti dell’anno in cui la pianificazione assume, per assurdo, contorni definiti solo durante il fine settimana. Sì, le ferie mi vedono molto più spesso organizzatore del weekend piuttosto che della settimana, tanto lo so che lavorano tutti. Ebbene, domenica scorsa ho deciso assieme a tre amici di lanciarmi e provare con loro un posto nuovo. Avevo voglia di brunch e via Saragozza ha scelto per me, portando alla mente il ricordo di un bar che avevo intravisto tempo addietro. Qualcuno vuole fare colazione, qualcuno vuole mangiare salato, qualcuno vuole fare brunch.

Saragoza 145, questo il nome del locale, è un wine bar che si trova su via Saragozza a Bologna, poco fuori porta. Dai viali ci si inerpica sulla leggera salita porticata che costeggia la via; si guardano le vetrine dei negozi, si passeggia all’ombra, si osserva la Bologna bene che abita nei quartieri alti e meno di 10 minuti dopo si arriva a questo locale con qualche tavolino di fuori, in ferro lavorato. Una bella lavagnetta ci aggiorna sul fatto che sì, è domenica e sì, siamo in orario da brunch.

A me sembra una casa privata!

A me sembra una casa privata!

Decidiamo di sederci dentro, nonostante sembra faccia caldo, apparentemente. Che dire, smentito: due locali spezzati dalla cucina, un piccolo corridoio unisce le sale principali, massimo 35 coperti. Pareti quasi del tutto spoglie, un buon grigio scuro, tavoli in legno grezzo di recupero, sedie alcune di legno e alcune di metallo lavorato. Ci sono poche finestre ma danno tutte su folti alberi che coprono i palazzi bassi appena dietro. Non solo fuori, anche dentro ci sono due alberi su un lato corto. Lampadari bassi, coperti da paralumi in tela bianca, altissimi. Vento, tanto vento fresco che accompagna una musica soft da lounge bar.

Ci sediamo e ci raccontano la formula: 15€ comprensivi di buffet e una bevanda a scelta tra acqua, succo d’arancia o caffè. Il buffet: il salato impera e su di esso prevalgono le spezie. Molte, moltissime varianti, prevalentemente fredde, che andavano dalla torta salata all’insalata di pollo al curry con mandorle. Verdure miste saltate con i semi di sesamo, mix di riso e verdure, pane alle olive, grissini con farina di mais, salsiccia panata con qualche seme misto aromatico. Ci stavano persino i gamberi.

Che dire poi del dolce: decisamente più defilato del salato ma altrettanto interessante. Pochi sapori esotici, dove il salato imperava invece, piuttosto incentrati sull’italian style. Cornetti dolci, marmellate Rigoni di Asiago, diversi tipi di miele, budino alla vaniglia con fragole. Qualche cupcake non troppo pastoso ma abbastanza pesante, soprattutto per chi come me si è ingozzato prima.

Poca gente, niente chiasso nemmeno dal piatto, rigorosamente in carta riciclata con posate di legno. Niente tovaglie, solo tovagliette tonde ben intonate con i tavoli, colori poco appariscenti, sui toni del rosso, bordeaux e nero. Intimo il locale, riservata la cucina: a vista, grazie a un pertugio rettangolare su tutta la lunghezza della stanza, come a dire “ci siamo, lavoriamo ma non vi diamo fastidio”.

Quando vado in un locale poi faccio sempre caso al bagno. In questo caso era ben pulito, piccolo ma non claustrofobico, anche in questo caso sono state fatte alcune scelte di design pure per i sanitari senza però gettarsi nel qualunquismo alla Ginori. Dai, promosso.

Note di merito:

– toni scuri, rilassanti

– cucina salata ben variegata

– posizione defilata, lontana dal caos cittadino

– immagine ben convogliata

Potrebbe andare meglio:

– musica meno lounge, volume più basso

– un po’ più varietà nel dolce

– bevande poco interessanti incluse nel prezzo

– sito internet poco aggiornato

Adesso qualche contatto, giusto per andare a trovarli.

Saragoza 145, via Saragozza 145 – Bologna

Sito internet: http://www.saragoza145.it

Facebook: Saragoza145

Questione di inflessione

27 Giu

Carpe diem è l’espressione migliore per indicare il fortunato periodo nel quale mi sono trovato alla fine del mese di giugno. Un rallentamento dal continuo susseguirsi delle emozioni di Performing Gender ha coinciso con le ferie gentilmente offerte dalla tigelleria. Ne ho bellamente approfittato così per andare da Andrea, giù nelle Marche, ospite a casa sua e della sua famiglia.
Per me questa sosta volontaria è stata come tornare alle origini, dato che un pezzetto di me viene dalle terre marchigiane. Il treno scende in fretta lungo la costa, tanto da permetterci di vedere paradossalmente il mare a poche decine di metri da un finestrino e le colline verdi e ocra dall’altro. Due paesaggi diversi e concomitanti, che fanno a cazzotti un po’ anche nella loro cucina: carne sui colli e pesce sulla costa. Abbondanza di sapori e calorie in entrambe le versioni, s’intende.
Con il gusto del ricordo non posso che essere riconoscente fino in fondo per questa vacanza, la mia gratificazione all’idea di calore familiare che le Marche mi hanno sempre trasmesso. Vale la pena raccontare il mio soggiorno, lo faccio per me, per dare una forma ai sentimenti liquidi che mi scorrono ancora dietro gli occhi.
Appena aperta la porta di casa la prima parola che mi salta in testa è “tantissimo”. In quell’appartamento a due piani ci vivono chiaramente tantissime persone, che condividono tantissime esperienze, immortalate in tantissime foto che ritraggono tutte quelle tantissime persone. Sui mobili, sugli scaffali, sui pensili ci sono tantissimi oggetti diversi, la cucina, che ha tantissime ante chiuse, ha anche tantissime pentole di rame appese e nelle credenze ci sono tantissimi piatti e tantissimi bicchieri, più di quanti sono i membri della famiglia. Di sopra la situazione si ripete: tantissime stanze, tantissimi libri sugli scaffali, tantissime foto. Per assurdo anche tantissimi spazzolini da denti in bagno e tantissimi asciugamani nelle scansie chiuse.
Non posso descrivere altrimenti la mia prima impressione, ci stava tantissima vitalità dentro quelle pareti, che rimbalzava sulla carta da parati, si rifletteva sulle superfici delle foto appese e spostava gli oggetti.
Mi accolgono almeno 3 persone e uno shitsu scodinzolante. Entro e mi trovo in famiglia, vengo trattato come tale e nient’altro, sono ospite solo sui primi tre scalini dell’ingresso e poi la mia lingua si scioglie sotto i colpi delle consonanti morbide del fermano. “È questione di inflessione” mi dice Andrea – “non abbiamo mica un vero dialetto, barliamo un boco candenzado ma niente di piú”. Ed è vero, la lingua batte meno sulle consonanti dure preferendo una morbidezza naturale e pastosa, che un po’ somiglia a questa cucina pedemontana, fatta di carni saporite, salami morbidi e formaggi semi-stagionati.
Mangio, aiuto, mi rilasso, osservato dai quattro figli della famiglia B. che si guardano, si sorridono e mi sorridono dalla carta lucida e patinata delle foto che attraversano almeno tre decenni. Vedo i colori mutare, le età cambiare, mi diverto a riconoscere le persone dai tratti somatici mentre aspetto che mi chiamino a tavola.
Ecco, a tavola non si mangia soltanto e non si guarda la tv, si discute sulla cronaca nazionale, si raccontano fatti personali, si chiacchiera di esami, di latino, di fisica, si vive di persona quel legame forte e familiare che le foto hanno suggerito fino a poco prima. Io intervengo ma soprattutto osservo incuriosito e ascolto nomi di persone che non conosco, citati da una mamma che informa il figlio fuori sede di ritorno in terra natia per qualche giorno dei cambiamenti occorsi al paese, dove a cambiare di solito sono prima le persone che le cose.

Non sono abituato a mangiare con così tante persone sedute alla stessa tavola e che condividono così tanti aspetti positivi e negativi, trattandoli con la vitalità e la curiosità delle persone che si vogliono bene e che fanno spallucce ai preconcetti, preferendo esporsi anche in presenza di uno sconosciuto come me. Mi sono sentito un po’ come un figlio aggiunto al quale non è dovuto nulla ma che, insomma, non lo si può mica lasciare in un angolo.

Mi rincresce lasciare questa terra, anche se ci sono rimasto per poco tempo. Mi sento di abbandonarla più forte e consapevole, con un senso di appartenenza forte che non pensavo di poter sviluppare in soli quattro giorni; eppure sento ancora adesso, che sono partito, tutto il calore che una famiglia non mia è riuscita a darmi e che la stagione estiva ha deciso di non dimostrare. Un calore diverso, più mio, interiore.

La parabola del sasso lanciato

16 Apr

Quando ero piccolo e mi trovavo in riva al mare con mio nonno o con mio padre, ero spesso tentato di fare il gioco del sassolino che salta sull’acqua. Passeggiavo a testa china, alla ricerca di quella pietra sottile e piatta ideale affinché il gioco potesse riuscire. Non mi accovacciavo mai per sporcarmi le mani, non serviva, camminavo a testa bassa e ne trovavo a bizzeffe di sassi piatti. La verità è che tutti i ciottoli sulla riva erano più o meno piatti, la spiaggia marchigiana a ridosso del Monte Conero è fatta di ghiaia a grana grossa e l’azione levigante del mare è costante e precisa, non si faticava mai nell’impresa.

Così, con il mio bel sasso levigato, mi mettevo in posizione e tiravo a pelo d’acqua, con la testa leggermente piegata e il movimento rapido del polso. Con il passare del tempo e il susseguirsi delle prove sono migliorato, tuttavia mai sono andato oltre i due, tre balzi. Il mio sasso partiva rapido e perdeva velocità con l’attrito dell’acqua, troppa velocità. Mio nonno invece, ancora nel pieno delle sue forze di uomo di mezza età, faceva quel movimento secco e tac-tac-tac-tac… almeno cinque o sei salti al sasso li faceva fare e questo si perdeva lontano, sprofondava là dove io di sicuro non toccavo coi piedi, dove non mi avventuravo mai.

Non ho mai capito dove sbagliassi, semplicemente perché mai l’ho chiesto a chi di salti se ne intendeva così tanto. L’orgoglio di un bambino è profondo, nulla può permettergli di scendere a patti con l’errore ed il bisogno incessante di inciampare in modo empirico, diventare grande per poi incespicare verso un tipo diverso di errore, più emotivo che fisico. Ciò che temiamo – o almeno io tem(ev)o – lì per lì è il pericolo della conseguenza del fare bene le cose. Cosa succede se, prima di tentare un’impresa, decidiamo di informarci a dovere sul processo? Probabilmente riusciremo nel nostro intento ed il risultato sarà non dico ottimo ma sicuramente nemmeno disastroso. Per un bambino però la cosa più importante non è la buona riuscita dell’impresa, quanto piuttosto la dimostrazione pubblica che quel risultato, per quanto apocalittico possa essere, è suo e suo soltanto, accollandosi la greve responsabilità dell’azione e molto spesso dell’errore. Non si guarda indietro, non si impara dai propri errori perché in sostanza non si analizzano i processi intrapresi.

Ecco, io ammetto di essere un cuoco bambino. Sono pionieristico nei confronti delle mie stesse conoscenze ma voglio fare da me senza chiedere aiuto a nessuno. Ciò mi riempie di fragilità e di quella forza primigenia del mettere le mani in pasta. Certo, mi informo sulle procedure e le attuo però alla fine faccio da solo e puntualmente sbaglio qualcosa. Ho 26 anni (quasi 27) e per fortuna so che a quasi ogni sbaglio esiste rimedio, il problema però sono le conseguenze. Come un bambino, sottovaluto le conseguenze delle azioni ponendo l’attenzione sull’idea che il prodotto ottenuto è di mia produzione. Quasi mai faccio la ricetta due volte, non mi dà piacere ripetere il già visto, mi stanco facilmente. Penso stia qui il discrimine sul diventare adulti, saper sospirare e prendere in mano le cose con più cautela e meno impeto rispetto a ciò che si faceva precedentemente, in favore di un risultato meno eclatante ma più utile, le cui conseguenze possano innescare altri processi ed altre conseguenze.

Sapete cosa? Ho il timore che questo mio approccio empirico-entusiasta non influenzi solo la cucina ma tutto il mio modo di intendere la mia vita: lavoro, affetti, sentimenti. Accidenti.

Nota bene: la ricetta del prossimo post terrà conto di ogni singolo errore che ho riscontrato nella preparazione e le sue dirette conseguenze sul risultato. Un esercizio verso la consapevolezza che per far bene le cose è necessario guardarsi indietro.

Diplomazia e lessico dei blog di cucina

10 Apr

Viviamo in un periodo storico (mi auguro decisamente breve) nel quale ci sono non solo delle parole tabù, ma addirittura dei veri e propri argomenti di conversazione che mai e poi mai andrebbero citati. Immaginare di unire queste parole-mai-dette ai canali di comunicazione digitale usuali diventa perciò un’impresa talmente ardua da richiedere un enorme sforzo di diplomazia, pena la perdita assoluta di efficacia della comunicazione. Sono teorie e teorie di pesantissimi sipari che si chiudono su conversazioni dette a bassa voce.

Quando parlo di argomenti off-limits mi riferisco ad esempio alla cucina. Esiste come una chiara e spasmodica ossessione nei confronti dei chili di troppo, delle maniglie dell’amore e del cibo “poco” sano. Io dunque, che un po’ per lavoro di comunicazione dovrei occuparmi e che tengo le fila di un blog fatto prevalentemente di ricette dolci dovrei avere vita particolarmente difficile. Chi segue il blog con una certa regolarità però sa che io da tempo ho abbandonato l’idea di schivare queste pesantissime tende nel procedere con il mio hobby culinario, decidendo pertanto di prenderle direttamente in faccia, oppure di aprirle tutte assieme. In altre parole: me ne sono sempre fregato della diplomazia dolciaria, preferendo ad essa una chiara e semplice idea, il 90% dei dolci è fatto di zucchero, accettalo.

Navigando tra numerosi blog e forum di cucina invece noto sempre più la tendenza a dichiarare nelle intestazioni delle ricette una realtà alternativa, fatta di particelle avversative o di qualità complementari. Della serie, dire “sei una gran brava persona” ad un ragazzo che non spicca per doti estetiche. Non è bello MA è simpatico. Ecco, un’avversativa.

Io non ho mai amato questo passare per il sottile un po’ gratuito, passando così la bomba in mano al povero lettore che, magari ignaro e alle prime armi, si ritrova a cucinare una sachertorte dove al burro è stata sostituita la margarina (più leggera) ma al quale non è stato detto che c’è una discreta dose di cioccolato nell’impasto. E che magari la glassa non è fatta di coriandoli e pillole bruciagrassi ma di zucchero e ulteriore cioccolato fuso. Parliamoci chiaro, se un pezzo di torta “si scioglie in bocca” non vuol dire che è fatto di ghiaccio, piuttosto che contiene una discretissima dose di burro che – magia! – con il calore si scioglie. Certo, esistono anche dolci con una dose ridotta di grasso (tipo quella che ho descritto recentissimamente qui); sono pochi, cervellotici e alla fine uno per costrutto mentale fa prima a prendersi una fetta di pan di spagna allo yogurt.

Così come non capisco la mania di voler per forza sostituire ingredienti classici con succedanei a basso contenuto calorico. Un conto è avere delle intolleranze, per non parlare delle allergie; un altro conto è sentire dentro di sé il bisogno di rinunciare alla ricetta originale in favore di un prodotto quasi uguale ma i cui ingredienti magari hanno reazioni diverse o addirittura profumi diversi. Chi si approccia alla cucina dolce per la prima volta dovrebbe innanzi tutto provare la ricetta originale e poi semmai cercare di sostituire, se il fine ultimo è evitare la disfatta dei propri fianchi. Sono deliberatamente disfattista: se non vuoi rinunciare alla linea, limita le dosi o la frequenza con la quale mangi dolci.

Voglio fare una prova: la prossima ricetta sarà deliberatamente grassissima MA la descriverò come se fosse piena di verità e qualità alternative. Così ho deciso.

Pasqua arriva quando meno te l’aspetti

30 Mar

Pasqua è una di quelle festività comandate che tutti decidono di dover aspettare quando si ha il rimpianto del Natale appena trascorso e che ci si dimentica bellamente quando si è a ridosso. Tipo adesso, io mica me lo ricordavo che ci sarebbero state le vacanze di Pasqua a cavallo tra marzo e aprile; eppure eccole qua, due giorni pieni pieni di vuoto siderale. Idee, luoghi, impegni. Vuoto cosmico e pneumatico. Zero al quoto.

Insomma, che si fa? Di solito io quando arrivo ai limiti della Pasqua vedo attorno a me la diaspora: c’è chi torna in terra natia, chi parte per un viaggetto (di solito quelli fortunati che possono permettersi il ponte lungo), chi resta dov’è. Io modestamente resta dov’è.

Inevitabilmente in questo caso funziona l’effetto Pover Rangers, chi può unisce le forze, racimola qualche spicciolo e parte alla ribalta per raffazzonare un pranzo conviviale. Che poi, diciamocelo, in fin dei conti non è proprio la Pasqua in sé la vera festa, quando il giorno dopo, Pasquetta, ci vede armati di cestini e tovaglie da prato per picnic nei parchi cittadini (o per i più fortunati in montagna, leggesi sempre “ponte lungo”).

Fatto sta che il meteo quest’anno ci dà contro. Benissimo, allora facciamo che la festa è Pasqua stavolta e non se ne parli più. Io, che come ho detto resta dov’è, pratico l’effetto Pover Rangers: dai quattro ai sei commensali per un pranzo contenuto. Ovviamente farò il dolce (lo ammetto, faccio spoiler nei confronti dei commensali ancor prima di presentarmi).

Ora, la domanda è: se ci stanno un vegetariano, un intollerante ai derivati del latte e uno allergico al lievito, che dolce potrò mai fare? Un’idea ce l’ho…

Il mega-oroscopo

19 Mar

Evoluzioni recenti della mia esistenza hanno voluto che decidessi di rimettere in gioco tutta una serie di affermazioni che avevo ben fissato nella mente, nonché una processione di abitudini alimentari/professionali/velleitarie che a loro volta si sommavano e coralmente si autoproclamavano tran-tran. Abitudine, riproduzione sistematica di attività e movimenti programmati nell’arco temporale prestabilito dal soggetto (io).

Esisteva nel 2011 – lo so – un oroscopo ipotetico raccontato su qualche rivista di tendenza tipo Vanity Fair che faceva da sibilla della mia esistenza, almeno per l’anno seguente. Questo mega-oroscopo incentrato sul 2012 diceva sostanzialmente che “i nati Toro alla fine della seconda decade posseggono nelle proprie tasche una manciata sparuta di stellette da appiccicare sulla canonica trimurti Amore-Lavoro-Soldi. A voi la scelta di quante metterne e dove, determinando lo sbilanciamento dei prossimi 365 giorni”.

Bellamente ho deciso di far carriera, perciò le ho messe così: Amore * / Lavoro ** / Soldi **

Con il senno di poi è così che è andata davvero: poca passionalità e più soddisfazioni a lavoro. Soddisfazioni che – diciamocelo – sono arrivate sotto forme non complete ma sufficientemente appaganti.

Il fatto è che non mi è bastato. Una volta raggiunto un livello di soddisfazione adeguato su alcuni fronti, inevitabilmente vuoi riempire anche gli altri vasetti di marmellata e non lasciarli mezzi vuoti solo perché hai finito la materia prima. Aspetto ancora che l’oroscopo del 2013 mi riveli l’esistenza di qualche altra stelletta adesiva da appiccicare dove dico io; ed ammetto un po’  malincuore di volerla mettere su quella voce ancora così sbilanciata che inizia per A (e non è Adipe, che di quello ne ho abbastanza). Poco sopporto scendere a patti con i sentimenti, specie se sono io a doverli esprimere o ad ammettere che ne sento la mancanza, eppure sospiro.
Una lama a doppio taglio. In questo gioco di incastri e di vasi comunicanti, in questa grossa cucina che non sa quanta marmellata cucinare, cosa succederebbe se, con l’ansia di fare troppo, finissero i vasetti? E se un giorno d’un tratto mi ritrovassi con più stellette che spazi per appiccicarli? Di che cosa sarò in grado di fare a meno?
Sarà meglio che io vada a comprare un po’ di frutta.

Placida nelle strade degli assassini

2 Mar

Stanco da due giornate di lavoro massacranti, ieri sera ho deciso di aggregarmi ad un gruppo di amici che avevano organizzato una tranquilla serata casalinga all’insegna delle chiacchiere e di qualche bicchiere di vino. Tralasciando il fatto che ho seguito solo un decimo delle conversazioni causa pennichella involontaria sul divano (la stanchezza), abbiamo passato il tempo giocando ad un classicone dei videogiochi picchiaduro. Dicesi picchiaduro quel genere che contempla esclusivamente la pressione compulsiva e spasmodica di tasti a caso sul joystick, al fine di corcare di botte l’alter-ego tutto muscoli e tecnica del tuo amico seduto a fianco, il quale sta tentando di fare altrettanto. Diciamolo, è l’alternativa alla partita di calcio: goliardia, campanilismo e quasi totale incomprensione delle meccaniche di gioco.

Lo ripeto, ho seguito (e contribuito) poco alla serata, ero stanco morto. Tuttavia il tornare a certe origine della mia affiliazione videoludica è stato un po’ come tornare indietro nel tempo a quando, pre-adolescente, amavo molto anche io farmi venire i calli sui polpastrelli e sui palmi delle mani per far funzionare il controller. Sì dai, è stato bello.

Poco dopo l’una di notte abbiamo deciso che non ero l’unico ad essere assonnato e abbiamo perciò chiuso la serata, decidendo di tornare a casa. Ora, piccola digressione sul percorso di ritorno.

Placida attraversa la strada

Placida attraversa la strada

Tralasciando le mie capacità artistiche, focalizziamoci sui contenuti. Il punto A rappresenta la casa degli amici, il punto B invece è casa mia. La linea rossa invece è il percorso effettuato, con tanto di nomi di vie e piazze. Ora, per chi non conoscesse Bologna, la zona di via Zamboni et adiacenze è considerata come quartiere universitario, laddove sono presenti un buon 50-60% delle facoltà. Insomma, ci bazzica laggente ggiovane per intendersi.

Vuoi l’annuncio di primavera, vuoi la mia stanchezza che ottenebrava i sensi, vuoi l’euforia del fine settimana, mi sono sentito come in un quartiere malfamato di NYC. A parte gli schiamazzi e le canzoni cantate da gruppi di ragazzi il cui tasso alcolico era decisamente superiore alla mia età, citiamo solo tre incontri particolari:

– ragazzo finto-rapper-vero-pazzo che tira un calcio alla bici del mio amico, bestemmiando e inveendo contro presunti froci mondiali, palesemente strafatto (occhio a palla, iniettato di sangue, nevrotico, movimenti a scatto), desideroso di fare a botte;

– rissa tra “amici” che sempre amichevolmente decidono di prendersi a bottigliate di birra in testa, riuscendo per altro a spaccarne un paio. Non abbiamo visto sangue perché abbiamo cambiato strada, però ecco, secondo me qualcosa per terra lo hanno lasciato;

– tre ragazze chiaramente ebbre che cantando abbracciate sotto un portico decidono involontariamente di perdere l’equilibrio e di crollare contro una colonna, facendo giungere a destinazione prima di tutto la testa di una delle tre, la quale ha prodotto un suono sordo di capocciata galattica non necessariamente mortale ma sicuramente rammentata dalla vittima nei prossimi giorni (e probabilmente anche dal chirurgo che l’ha cucita stanotte).

Per dirla tutta insomma, mi sono sentito come quel personaggio protagonista di una delle storie di Pinin Carpi (per chi non sapesse di chi sto parlando, Santa Wiki ci viene incontro), Placida, la ragazzina che si muoveva in mezzo al quartiere peggiore della città per tornare a casa. Là incontrava le peggio persone e vedeva le peggio cose ma lei nulla, non si scomponeva e proseguiva dritta con il candore e la curiosità dei bambini, facendo domande e dando risposte del tutto umane alle pulsioni assassine dei suoi contrapposti.

A casa l’aspettava ovviamente la mamma, con la cena pronta e la torta fatta, a brillante e luminosa conclusione di un percorso fatto di buio e cattiveria.

Così come la mamma di Placida, anche io farò una torta che possa in qualche modo calmare gli animi turbolenti della serata di ieri. Ho visto i miei assassini dileguarsi di fronte al pensiero di una torta semplice che ho fatto recentemente e della quale non avevo ancora capito il senso.

P.S. per chi non conoscesse il libro, consiglio vivamente di fare un tuffo ne “Il Libro delle Storie Corte”, una bella raccolta di racconti di Pinin Carpi. Un insieme di storie brevi piene di personaggi buffi e solo superficialmente incongruenti, che fanno cose strane ma logiche. Lo stile è asciutto e scorrevole, un libro per bambini ma che parla al futuro adulto senza avere la pretesa di insegnare nulla di teorico ma di far vedere in chiave metaforica che non esiste solo il bene e soprattutto che non necessariamente è il fine.

P.P.S. i disegni sono molto belli, schizzi di colore e linee tremule, tutto opera dello stesso Carpi.

Costa poco, almeno a quanto ho visto io.

Pinin CarpiIl Libro delle Storie CorteNuove Edizioni Romani – Roma 1993

Illustrazioni di Pinin Carpi e Marilena Rescaldani

Il Santo Banale

19 Dic

Ci risiamo, ogni blogger che si voglia reputare tale si sente in dovere di raccontare qualcosa sotto le feste. Manca poco al 25 dicembre; già speriamo di vedere all’orizzonte il caro buon vecchio Babbo Natale intento a trascinarsi dietro un saccone pieno di regali, sempre che una tromba d’aria non se lo porti via il 21 corrente mese.

Lo ammetto, io sul Natale ho davvero poco da dichiarare, se non che con il passare del tempo e l’aumentare delle responsabilità che la vita adulta comporta, ho iniziato a sentirlo sempre meno come una festa e più come un giorno di ferie comandato. Sì, perché tutto sommato quando hai un lavoro che ti occupa una fetta importante della tua quotidianità, avere un giorno di ferie ha quel senso di criogenia del tran tran che un po’ ti disgusta. Io ad esempio non so mai cosa fare: i negozi sono chiusi, fa freddo, gli amici stanno in famiglia (la mia è lontana), la tv non dà nulla di buono (Bambi? Ancora?), la neve puntualmente non scende a farmi sospirare di pace e amenità tutte.

Ogni anno poi è sempre la stessa storia, la corsa ai regali, le occasioni imperdibili, la comparazione delle lucette natalizie di quest’anno con quelle dell’anno scorso. Alla fine, che cos’è il Natale se non un’esposizione di paramenti commercialmente sacri, una viatico messianico verso la più classica delle conclusioni (ovvero il cenone)? Da qualche tempo a questa parte tratto questa festività come una brutta omelia già sentita, l’ennesimo episodio di Miracolo sulla 34a strada trasmesso di pomeriggio su Italia 1.

Sbuffiamo, suvvia, non c’è nulla di male nel farlo, nel lamentarsi un po’ di tutta questa bontà imposta (altro cliché, lo ammetto). Alla fine si tratta pur sempre di una festa dedicata ad un santo (Nicola di Bari, non il cantante ma quello delle tre palle d’oro, per chi non lo sapesse qui e qui due spiegazioni del mito del santo), un po’ stereotipato, un po’ cristallizzato, un po’ banale. Ecco sì, un Santo Banale.

Come il santo, pure io vi proporrò un dolce banale, un tipico prodotto della tradizione natalizia.

Sintomatologia della metropoli

12 Set

Milano è un medicinale del quale non conosciamo la posologia, non conosciamo il principio attivo, non conosciamo la casa farmaceutica che lo produce; tuttavia, sappiamo perfettamente quali sono gli effetti collaterali. Almeno, io conosco ciò che fa a me.

Sono stato via da Bologna per quattro giorni. Il primo pensiero, seduto in auto è stato “morirò, Milano mi mangerà, verrò dilaniato e mi annoierò”. In verità soffrivo terribilmente il confronto con la grande città, io topolino di quartiere e ancora prima topolino di campagna. Guardando la campagna bolognese trasformarsi lentamente in risaia, in capannoni ed infine in case basse e rarefatte da periferia cittadina, il mio cuore ha cominciato ad acquistare peso. Più macinavamo km, più sentivo cedere la mia corazza. Milano ha sempre avuto questo strano effetto su di me, saranno tutti i ricordi che mi legano ad essa, le prime esperienze professionali e sentimentali, le prime uscite da solo, da adolescente.

Sento parlare spesso della grande metropoli lombarda, quasi tutti hanno qualcosa da ridire sul traffico, sul caos che regna nel centro, sul grigiore dei palazzi, sulla pochezza urbanistica dei quartieri, sull’annullamento psicologico che i milanesi si sono auto-indotti per non restare troppo condizionati dal loro affetto per Milano. Ho visto persone storcere il naso soltanto nominando la città, figuriamoci parlarne. Eppure, ho sempre pensato che la magia della metropoli stesse proprio lì, nella sua diplomazia anglosassone spesso scambiata per indifferenza. Ad uno sguardo rapido sembra sempre che il milanese a spasso per la città soffra di una grave forma di opportunismo, io do qualcosa a te SE tu dai qualcosa a me (possibilmente un bel mè con l’accento grave, suono fatto a bocca aperta, la bella e secca di “ecco”). Se guardi meglio però, quell’opportunismo è in verità una forma blanda di sopravvivenza urbana, un delimitare il terreno personale e quello di scambio reciproco. La gente passa e non si guarda, al massimo si scruta l’un l’altro e alla fine, se c’è business, ci si annusa un po’ di più. Non parliamo del mercato dei sentimenti, lì Milano ha le sue regole, che hanno sempre lasciato basito me, piccolo uomo di città più piccola.

Ora, immaginate me, sperduto in città con un’amica/collega, durante la Vogue Fashion Night Out (aka “il delirio”). Migliaia di persone smaliziatissime ed elegantissime che si riversano in strada, musica ovunque, negozi aperti fino a mezzanotte, grandi e piccoli a spasso per le vie illuminate a giorno, aperitivi di stile un po’ dappertutto e bicchieri di champagne in mano a chiunque. Bicchieri di vetro, flute, mica il bicchierino di plastica trasparente della Coop. Aggiungeteci imminente la fame e il disagio di dover trovare un locale per mangiare a prezzo contenuto. A Bologna si direbbe che sono uno sbarbino, a Milano semplicemente un pirla.

Fiori Chiari Plates - Milano

Fiori Chiari Plates – Milano

Consigliato da un amico (grazie Diego), ci rechiamo in via Fiori Chiari, zona Brera, quindi universitaria ma fighetta (in italiano si direbbe “ricercata”). Gallerie d’arte, negozietti non più grandi di una camera da letto e ristoranti. Ci imbattiamo dopo una breve ricerca in Fiori Chiari Plates (il cui sito è visitabile qui); di primo acchito non lo noteresti, doppia vetrina, qualche pianta all’esterno, la solita piantana con sopra il menu aperto sui piatti principali. Eppure, quando entri, l’atmosfera cambia: due piani di cui uno soppalcato a vista, stile coloniale sui toni del marrone, lampadari in legno, musica soft. A piano terra la tendenza è quella di creare grosse tavolate, unire i gruppi e dare quell’idea di “volemosebbene” stile rivista patinata di moda, convivialità ben vestita. Al secondo piano invece, vuoi per mancanza di spazio, i tavoli sono per due, massimo quattro persone, quadretti di stampe in b/n alle pareti, oggettini di latta arrugginita senza il rischio del tetano.

Il menu ci stupisce un po’: questi ristoratori hanno puntato sulla tradizione della cucina regionale italiana, rivolgendosi prevalentemente agli antipasti di salumi ed alle prime portate. Di secondi nemmeno l’ombra, sempre che non si voglia considerare un’insalata mista un secondo piatto. Gli antipasti sono prevalentemente formati da taglieri di salumi, accompagnati dal classico gnocco fritto. Friuli, appennino tosco-emiliano e Lombardia si fanno strada sulle tavole offrendo il meglio della produzione regionale, senza stufare troppo (anche il tagliere piccolo è in verità un piatto da portata per quantità di materia prima). I primi piatti invece sono prevalentemente di terra, si prediligono gusti delicati provenienti dalle regioni del nord Italia, con qualche puntata campana. Niente secondi piatti, solo dolci fatti in casa e rigorosamente italiani. In aggiunta, lo staff è cordiale e attento (si sono sbagliati con il mio primo piatto e si sono scusati quattro volte, tra cui l’ultima sulla porta del locale a fine pasto, ho apprezzato non ci abbiano offerto il caffè per rimediare).

Fiori Chiari Plates - Milano

Fiori Chiari Plates – Milano

Il nostro tavolo ha visto arrivare prima un tagliere di salumi friulani (salame alle noci, pancetta alla lavanda, dolcissimo prosciutto crudo del Sulcis), le cui quantità rasentavano davvero il piatto unico. Pazienza, dividiamo in due il prodotto e tra un mugugno e l’altro puliamo il piatto. All’antipasto segue il primo: per me una vellutata di patate e porri, per la mia amica invece un meraviglioso piatto di spaghetti alla chitarra con menta, limone, formaggio stagionato grattato sopra e un poco di panna, giusto per mantecare. Che invidia: i sapori erano delicatissimi, ti arrivavano assieme il profumo della menta ed il sapore del limone, una volta messo in bocca. Porzioni abbondanti senza strafare, un ottimo esempio di cucina da bistrot ricercato. Terminiamo con una semplice caprese, delicata, morbida, non la migliore che io abbia mangiato (sfido, un dolce campano mangiato a Milano è decisamente rischioso come una mano di poker). Prezzi? Incredibile rapporto qualità/prezzo, calcolando la zona e la città dall’alta qualità della vita. Meno di 20 euro a testa, senza vino ma con tre acque e una coca cola (ahia).

Promosso, sicuramente. Fateci un salto se capitate a Milano, è un locale adatto un po’ a tutte le età.