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Questione di inflessione

27 Giu

Carpe diem è l’espressione migliore per indicare il fortunato periodo nel quale mi sono trovato alla fine del mese di giugno. Un rallentamento dal continuo susseguirsi delle emozioni di Performing Gender ha coinciso con le ferie gentilmente offerte dalla tigelleria. Ne ho bellamente approfittato così per andare da Andrea, giù nelle Marche, ospite a casa sua e della sua famiglia.
Per me questa sosta volontaria è stata come tornare alle origini, dato che un pezzetto di me viene dalle terre marchigiane. Il treno scende in fretta lungo la costa, tanto da permetterci di vedere paradossalmente il mare a poche decine di metri da un finestrino e le colline verdi e ocra dall’altro. Due paesaggi diversi e concomitanti, che fanno a cazzotti un po’ anche nella loro cucina: carne sui colli e pesce sulla costa. Abbondanza di sapori e calorie in entrambe le versioni, s’intende.
Con il gusto del ricordo non posso che essere riconoscente fino in fondo per questa vacanza, la mia gratificazione all’idea di calore familiare che le Marche mi hanno sempre trasmesso. Vale la pena raccontare il mio soggiorno, lo faccio per me, per dare una forma ai sentimenti liquidi che mi scorrono ancora dietro gli occhi.
Appena aperta la porta di casa la prima parola che mi salta in testa è “tantissimo”. In quell’appartamento a due piani ci vivono chiaramente tantissime persone, che condividono tantissime esperienze, immortalate in tantissime foto che ritraggono tutte quelle tantissime persone. Sui mobili, sugli scaffali, sui pensili ci sono tantissimi oggetti diversi, la cucina, che ha tantissime ante chiuse, ha anche tantissime pentole di rame appese e nelle credenze ci sono tantissimi piatti e tantissimi bicchieri, più di quanti sono i membri della famiglia. Di sopra la situazione si ripete: tantissime stanze, tantissimi libri sugli scaffali, tantissime foto. Per assurdo anche tantissimi spazzolini da denti in bagno e tantissimi asciugamani nelle scansie chiuse.
Non posso descrivere altrimenti la mia prima impressione, ci stava tantissima vitalità dentro quelle pareti, che rimbalzava sulla carta da parati, si rifletteva sulle superfici delle foto appese e spostava gli oggetti.
Mi accolgono almeno 3 persone e uno shitsu scodinzolante. Entro e mi trovo in famiglia, vengo trattato come tale e nient’altro, sono ospite solo sui primi tre scalini dell’ingresso e poi la mia lingua si scioglie sotto i colpi delle consonanti morbide del fermano. “È questione di inflessione” mi dice Andrea – “non abbiamo mica un vero dialetto, barliamo un boco candenzado ma niente di piú”. Ed è vero, la lingua batte meno sulle consonanti dure preferendo una morbidezza naturale e pastosa, che un po’ somiglia a questa cucina pedemontana, fatta di carni saporite, salami morbidi e formaggi semi-stagionati.
Mangio, aiuto, mi rilasso, osservato dai quattro figli della famiglia B. che si guardano, si sorridono e mi sorridono dalla carta lucida e patinata delle foto che attraversano almeno tre decenni. Vedo i colori mutare, le età cambiare, mi diverto a riconoscere le persone dai tratti somatici mentre aspetto che mi chiamino a tavola.
Ecco, a tavola non si mangia soltanto e non si guarda la tv, si discute sulla cronaca nazionale, si raccontano fatti personali, si chiacchiera di esami, di latino, di fisica, si vive di persona quel legame forte e familiare che le foto hanno suggerito fino a poco prima. Io intervengo ma soprattutto osservo incuriosito e ascolto nomi di persone che non conosco, citati da una mamma che informa il figlio fuori sede di ritorno in terra natia per qualche giorno dei cambiamenti occorsi al paese, dove a cambiare di solito sono prima le persone che le cose.

Non sono abituato a mangiare con così tante persone sedute alla stessa tavola e che condividono così tanti aspetti positivi e negativi, trattandoli con la vitalità e la curiosità delle persone che si vogliono bene e che fanno spallucce ai preconcetti, preferendo esporsi anche in presenza di uno sconosciuto come me. Mi sono sentito un po’ come un figlio aggiunto al quale non è dovuto nulla ma che, insomma, non lo si può mica lasciare in un angolo.

Mi rincresce lasciare questa terra, anche se ci sono rimasto per poco tempo. Mi sento di abbandonarla più forte e consapevole, con un senso di appartenenza forte che non pensavo di poter sviluppare in soli quattro giorni; eppure sento ancora adesso, che sono partito, tutto il calore che una famiglia non mia è riuscita a darmi e che la stagione estiva ha deciso di non dimostrare. Un calore diverso, più mio, interiore.