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Crescionda

3 Lug

Mi perdonino tutti coloro i quali sono affezionati al binomio ricetta-regione di appartenenza. Scuoteranno la testa per la mia scelta sbagliata ma ho un motivo valido: questo dolce mi è stato imposto da Anna, madre di Andrea, la quale ci delegò nel realizzarlo per la cena. Perciò ecco, in verità questo è un ulteriore ringraziamento alla famiglia B. che mi ospitò.

CRESCIONDA (almeno 10 persone)

Tempo: 40 minuti

30 minuti sono di cottura, per il resto si tratta solo di amalgamare senza prestare attenzione. Almeno, un minimo di attenzione ci vuole.

Difficoltà: bassa

Come dicevo prima: amalgama, versa, inforna. Fa tutto lei.

Costo: basso

Se vi dico che la cosa più cara sono gli amaretti è dir tanto. Ah sì, ci sta il liquore, ma quello si riutilizza anche per altri scopi.

Ingredienti

– 4 cucchiai di farina 00

– 4 cucchiai di zucchero semolato

– 4 uova intere

– 100 grammi di cioccolato fondente grattugiato

– 200 grammi di amaretti

– 500 ml di latte intero

– un bicchierino di mistrà

Le scuse che ho anticipato riguardavano il fatto che in verità questo dolce ha origini umbre e non marchigiane, venendo da Spoleto. Inoltre è un dolce che poco si adatta al periodo estivo, dato che ha origini carnevalesche. Pazienza, del resto non lo faccio per onore dell’alta cucina. Cominciamo.

Molto bene, partiamo subito dicendo che è dannatamente facile, così spavento tutti i lettori. Prendete le uova e sbattetele insieme allo zucchero, finché il composto non diventa spumoso. Prendete poi un amico e costringetelo a sbriciolare gli amaretti, nonché a grattugiare il cioccolato fondente. Andrea in questo caso è stato il fidato braccio destro.

Ora versate nel composto gli altri ingredienti in quest’ordine: latte, farina, amaretti, cioccolato. Mescolate per bene finché non sarà tutto ben distribuito. Mentre accendete il forno a 180° vi racconto come salterà fuori il dolce. Ebbene, a dire il vero che il composto sia amalgamato alla perfezione poco ce ne cale, dato che d’un tratto gli ingredienti si separeranno come l’acqua con l’olio. Gli amaretti sbriciolati andranno in superficie, sul fondo si stratificherà il cioccolato fuso e il resto del pappone sarà il dolce vero e proprio. Una piccola magia non c’è che dire, non vi sto nemmeno a spiegare perché.

Molto bene, adesso dobbiamo soltanto aggiungere il liquore. Abbiamo scelto il mistrà perché era in casa; ciò non toglie che altri distillati possano andare benissimo. Metti la sambuca, metti il Borghetti, metti quel che ti pare. Magari non i macerati come il limoncello o il nocino, il resto può andare bene. Qualcuno ci aggiunge anche dello zeste di limone grattugiato ma noi ce ne freghiamo e lo evitiamo, così il dolce non ha un sapore troppo forte d’estate, alla faccia del caldo (che non c’è stato).

Versate finalmente il composto dentro una bella tortiera possibilmente imburrata e infarinata e infornate il tutto per 30 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare, così si solidificherà. Il risultato dovrebbe essere questo più o meno.

Quel che dovrebbe venire fuori

Quel che dovrebbe venire fuori

Sì ecco, perdonate la bassa qualità dell’immagine, dovevo catturare la scena in un attimo. Suvvia, l’aspetto rustico si riflette anche nella fotografia no?

Considerazioni finali

Che dire, una ricetta paesana molto semplice ma che è risultata azzeccatissima con il clima tempestoso dei miei giorni di vacanza. Il cioccolato fa sempre tanto calore. E’ stata apprezzata, sì. Mangiatela piano, è pesante e un po’ budinosa.

Accompagnamento: mistrà

La regola è: se metti del liquore nel dolce tenta sempre di ripresentarlo come accompagnamento, se lo richiede il pubblico. Il dolce lo richiamerà a gran voce non appena lo assaggerete.

Questione di inflessione

27 Giu

Carpe diem è l’espressione migliore per indicare il fortunato periodo nel quale mi sono trovato alla fine del mese di giugno. Un rallentamento dal continuo susseguirsi delle emozioni di Performing Gender ha coinciso con le ferie gentilmente offerte dalla tigelleria. Ne ho bellamente approfittato così per andare da Andrea, giù nelle Marche, ospite a casa sua e della sua famiglia.
Per me questa sosta volontaria è stata come tornare alle origini, dato che un pezzetto di me viene dalle terre marchigiane. Il treno scende in fretta lungo la costa, tanto da permetterci di vedere paradossalmente il mare a poche decine di metri da un finestrino e le colline verdi e ocra dall’altro. Due paesaggi diversi e concomitanti, che fanno a cazzotti un po’ anche nella loro cucina: carne sui colli e pesce sulla costa. Abbondanza di sapori e calorie in entrambe le versioni, s’intende.
Con il gusto del ricordo non posso che essere riconoscente fino in fondo per questa vacanza, la mia gratificazione all’idea di calore familiare che le Marche mi hanno sempre trasmesso. Vale la pena raccontare il mio soggiorno, lo faccio per me, per dare una forma ai sentimenti liquidi che mi scorrono ancora dietro gli occhi.
Appena aperta la porta di casa la prima parola che mi salta in testa è “tantissimo”. In quell’appartamento a due piani ci vivono chiaramente tantissime persone, che condividono tantissime esperienze, immortalate in tantissime foto che ritraggono tutte quelle tantissime persone. Sui mobili, sugli scaffali, sui pensili ci sono tantissimi oggetti diversi, la cucina, che ha tantissime ante chiuse, ha anche tantissime pentole di rame appese e nelle credenze ci sono tantissimi piatti e tantissimi bicchieri, più di quanti sono i membri della famiglia. Di sopra la situazione si ripete: tantissime stanze, tantissimi libri sugli scaffali, tantissime foto. Per assurdo anche tantissimi spazzolini da denti in bagno e tantissimi asciugamani nelle scansie chiuse.
Non posso descrivere altrimenti la mia prima impressione, ci stava tantissima vitalità dentro quelle pareti, che rimbalzava sulla carta da parati, si rifletteva sulle superfici delle foto appese e spostava gli oggetti.
Mi accolgono almeno 3 persone e uno shitsu scodinzolante. Entro e mi trovo in famiglia, vengo trattato come tale e nient’altro, sono ospite solo sui primi tre scalini dell’ingresso e poi la mia lingua si scioglie sotto i colpi delle consonanti morbide del fermano. “È questione di inflessione” mi dice Andrea – “non abbiamo mica un vero dialetto, barliamo un boco candenzado ma niente di piú”. Ed è vero, la lingua batte meno sulle consonanti dure preferendo una morbidezza naturale e pastosa, che un po’ somiglia a questa cucina pedemontana, fatta di carni saporite, salami morbidi e formaggi semi-stagionati.
Mangio, aiuto, mi rilasso, osservato dai quattro figli della famiglia B. che si guardano, si sorridono e mi sorridono dalla carta lucida e patinata delle foto che attraversano almeno tre decenni. Vedo i colori mutare, le età cambiare, mi diverto a riconoscere le persone dai tratti somatici mentre aspetto che mi chiamino a tavola.
Ecco, a tavola non si mangia soltanto e non si guarda la tv, si discute sulla cronaca nazionale, si raccontano fatti personali, si chiacchiera di esami, di latino, di fisica, si vive di persona quel legame forte e familiare che le foto hanno suggerito fino a poco prima. Io intervengo ma soprattutto osservo incuriosito e ascolto nomi di persone che non conosco, citati da una mamma che informa il figlio fuori sede di ritorno in terra natia per qualche giorno dei cambiamenti occorsi al paese, dove a cambiare di solito sono prima le persone che le cose.

Non sono abituato a mangiare con così tante persone sedute alla stessa tavola e che condividono così tanti aspetti positivi e negativi, trattandoli con la vitalità e la curiosità delle persone che si vogliono bene e che fanno spallucce ai preconcetti, preferendo esporsi anche in presenza di uno sconosciuto come me. Mi sono sentito un po’ come un figlio aggiunto al quale non è dovuto nulla ma che, insomma, non lo si può mica lasciare in un angolo.

Mi rincresce lasciare questa terra, anche se ci sono rimasto per poco tempo. Mi sento di abbandonarla più forte e consapevole, con un senso di appartenenza forte che non pensavo di poter sviluppare in soli quattro giorni; eppure sento ancora adesso, che sono partito, tutto il calore che una famiglia non mia è riuscita a darmi e che la stagione estiva ha deciso di non dimostrare. Un calore diverso, più mio, interiore.