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La parabola del sasso lanciato

16 Apr

Quando ero piccolo e mi trovavo in riva al mare con mio nonno o con mio padre, ero spesso tentato di fare il gioco del sassolino che salta sull’acqua. Passeggiavo a testa china, alla ricerca di quella pietra sottile e piatta ideale affinché il gioco potesse riuscire. Non mi accovacciavo mai per sporcarmi le mani, non serviva, camminavo a testa bassa e ne trovavo a bizzeffe di sassi piatti. La verità è che tutti i ciottoli sulla riva erano più o meno piatti, la spiaggia marchigiana a ridosso del Monte Conero è fatta di ghiaia a grana grossa e l’azione levigante del mare è costante e precisa, non si faticava mai nell’impresa.

Così, con il mio bel sasso levigato, mi mettevo in posizione e tiravo a pelo d’acqua, con la testa leggermente piegata e il movimento rapido del polso. Con il passare del tempo e il susseguirsi delle prove sono migliorato, tuttavia mai sono andato oltre i due, tre balzi. Il mio sasso partiva rapido e perdeva velocità con l’attrito dell’acqua, troppa velocità. Mio nonno invece, ancora nel pieno delle sue forze di uomo di mezza età, faceva quel movimento secco e tac-tac-tac-tac… almeno cinque o sei salti al sasso li faceva fare e questo si perdeva lontano, sprofondava là dove io di sicuro non toccavo coi piedi, dove non mi avventuravo mai.

Non ho mai capito dove sbagliassi, semplicemente perché mai l’ho chiesto a chi di salti se ne intendeva così tanto. L’orgoglio di un bambino è profondo, nulla può permettergli di scendere a patti con l’errore ed il bisogno incessante di inciampare in modo empirico, diventare grande per poi incespicare verso un tipo diverso di errore, più emotivo che fisico. Ciò che temiamo – o almeno io tem(ev)o – lì per lì è il pericolo della conseguenza del fare bene le cose. Cosa succede se, prima di tentare un’impresa, decidiamo di informarci a dovere sul processo? Probabilmente riusciremo nel nostro intento ed il risultato sarà non dico ottimo ma sicuramente nemmeno disastroso. Per un bambino però la cosa più importante non è la buona riuscita dell’impresa, quanto piuttosto la dimostrazione pubblica che quel risultato, per quanto apocalittico possa essere, è suo e suo soltanto, accollandosi la greve responsabilità dell’azione e molto spesso dell’errore. Non si guarda indietro, non si impara dai propri errori perché in sostanza non si analizzano i processi intrapresi.

Ecco, io ammetto di essere un cuoco bambino. Sono pionieristico nei confronti delle mie stesse conoscenze ma voglio fare da me senza chiedere aiuto a nessuno. Ciò mi riempie di fragilità e di quella forza primigenia del mettere le mani in pasta. Certo, mi informo sulle procedure e le attuo però alla fine faccio da solo e puntualmente sbaglio qualcosa. Ho 26 anni (quasi 27) e per fortuna so che a quasi ogni sbaglio esiste rimedio, il problema però sono le conseguenze. Come un bambino, sottovaluto le conseguenze delle azioni ponendo l’attenzione sull’idea che il prodotto ottenuto è di mia produzione. Quasi mai faccio la ricetta due volte, non mi dà piacere ripetere il già visto, mi stanco facilmente. Penso stia qui il discrimine sul diventare adulti, saper sospirare e prendere in mano le cose con più cautela e meno impeto rispetto a ciò che si faceva precedentemente, in favore di un risultato meno eclatante ma più utile, le cui conseguenze possano innescare altri processi ed altre conseguenze.

Sapete cosa? Ho il timore che questo mio approccio empirico-entusiasta non influenzi solo la cucina ma tutto il mio modo di intendere la mia vita: lavoro, affetti, sentimenti. Accidenti.

Nota bene: la ricetta del prossimo post terrà conto di ogni singolo errore che ho riscontrato nella preparazione e le sue dirette conseguenze sul risultato. Un esercizio verso la consapevolezza che per far bene le cose è necessario guardarsi indietro.