Confettura di pere e amaretti

27 Mar

Inevitabilmente la ricetta di questo periodo così brioso e primaverile (credici) non poteva che essere un dolce invernale.

CONFETTURA DI PERE E AMARETTI

 

Tempo: 1 ora e 20 minuti

Perderete più tempo a cuocere che a sbucciare e tagliare.

Difficoltà: molto bassa

Vi farete più male a sbucciare e tagliare che a cuocere.

Costo: basso

Ve la caverete con 5 euro di spesa se sapete scegliere la qualità giusta di frutta. Gli amaretti nel caso costano poco. Potreste pure farli in casa… mmmh… mi sa che ho un’altra ricetta in mente per le prossime volte.

Ingredienti

– 1 kg e 200 grammi di pere (a voi scegliere quali)

– 300 grammi di zucchero semolato

– una dozzina di amaretti

– succo di mezzo limone (facoltativo)

– qualche pinolo (facoltativo)

Evviva! Ci voleva un po’ di ritorno alle origini, usare una ricetta talmente facile da poter essere sbagliata in duecento modi diversi. La verità è che per fare la marmellata non esistono davvero delle proporzioni stabilite assolute e inderogabili, non esiste un “Manuale perfetto del bravo marmellatore” e, a quanto io sappia, nemmeno un’Associazione Mondiale Marmellate (AMM, onomatopeico). Tuttavia, due gli elementi fondamentali da tenere in considerazione: il grado di gelificazione della frutta e la dolcezza. Ma andiamo con ordine:

Mi piace quando appiccica. Niente malizia, è vero. L’aspetto colloso e trasparente tipico delle confetture (sì, perché in verità la marmellata è solo quella di agrumi, il resto sono confetture. Un po’ come in inglese la differenza tra marmelade e jam) è dato da una sostanza chiamata pectinaun enzima che si trova in tutta la frutta ma in percentuali diverse. In pole position per contenuto di pectina abbiamo le mele, seguite dalle arance; in terza posizione abbiamo le pesche.

La confettura s’ha d’essere dolce. Inutile schivare gli zuccheri per fare cose dietetiche, la marmellata deve essere dolce. E’ un elemento del mattino, abbiamo tutti bisogno di energie, perciò insomma, facciamocelo andare bene. Sappiamo bene che non tutte le qualità di frutta hanno lo stesso accento zuccherino, anzi, anche all’interno di una stessa tipologia di frutto abbiamo varianti più o meno dolci. Guardate le mele: riconoscereste ad occhi chiusi una renetta da una granny smith.

Tenendo conto di questi due elementi, facciamo attenzione a come dosiamo gli ingredienti. Cominciamo.

Prendiamo le pere, laviamole accuratamente e sbucciamole una ad una. Non togliamo del tutto lo strato esterno, perché in verità la pectina si trova principalmente sulla buccia e non nella polpa. Indi per cui, lasciamone un po’. A questo punto tagliamo le pere a tocchetti, buttiamole in una pentola capiente e sommergiamole dallo zucchero. Dopo una buona mescolata, lasciamo a macerare per una trentina di minuti. Cosa succederà? Le pere a contatto con gli zuccheri rilasceranno la benedetta pectina (e un po’ di succo), la quale si depositerà sul fondo.

Evviva! A questo punto, dopo che avremo avviato il processo di gelificazione, concludiamolo dando il secondo colpo di grazia alla pectina: il calore. Detto in parole povere, accendiamo il fuoco e rigirando, portiamo a bollore. A questo punto abbassiamo la fiamma e lasciamo macerare, mescolando di tanto in tanto, più frequentemente verso la fine della cottura. Il processo sarà più o meno questo:

Confettura di pere e amaretti

Confettura di pere e amaretti

Con il passare del tempo succederà questo:

Confettura di pere e amaretti

Confettura di pere e amaretti

Praticamente la polpa si scioglierà e la confettura assumerà man mano una caratteristica semi-trasparenza. Se non amate le confetture “a pezzi”, vi consiglio di schiacciare un po’ la frutta oppure di passarla al frullatore ad immersione per qualche secondo. Ottenuto il risultato sperato, non ci resta che fare la cosiddetta prova della cucchiaiata, per capire se è pronta la confettura. Insomma, su un piatto freddo mettiamo una noce di prodotto e poi incliniamolo. Se questo scivolerà con lentezza vuol dire che è pronto. Se non scivola l’abbiamo ridotta troppo (ed è una purea), se scappa è ancora liquida e va fatta ridurre ulteriormente.

Adesso sbriciolate qualche amaretto dentro il composto ancora caldo e mescolate. Se lo desiderate aggiungete anche qualche pinolo. Ora prendete un bel barattolo a chiusura ermetica (ne vendono ovunque nei negozi di casalinghi, ma anche nelle catene di supermercati ce ne sono) accuratamente lavato (meglio se bollito) ed asciugato. Metteteci dentro la confettura fin quasi all’orlo e chiudete ermeticamente. Per evitare l’arrembaggio dei batteri si consiglia di far bollire di nuovo il tutto con il composto dentro. Se decidete però di consumarla entro breve allora non lagnatevi con questi passaggi e limitatevi a chiudere il barattolo. Il risultato sarà questo.

Confettura di pere e amaretti

Confettura di pere e amaretti

Considerazioni finali

Come dicevo in apertura, esistono certe variabili di zucchero nella stessa tipologia di frutta. Per la ricetta attuale ho usato le pere williams che sono piccole e molto compatte, meno delle abate di sicuro. Hanno un grado zuccherino che, su una scala da 0 a 5 sta a 2,5 (mentre le abate sono a 1). Ancor meglio (soprattutto per la stagione), sono le kaiser, più dolci (diciamo un 3,5) ma sicuramente più farinose e facili da sciogliere; oltretutto userete meno zucchero.

La scelta degli amaretti, così dolci, vi potrebbe permettere di diminuire drasticamente e ulteriormente la quantità di zucchero. A me piace dolce, quindi me ne sono fregato e via con una classica proporzione 1 a 3 (100 grammi di zucchero ogni 300 di prodotto pulito). Il pinolo spegne un po’ questa dolcezza infinita dando un tocco un po’ amaro, spezzando anche la vellutata sensazione della confettura classica.

Accompagnamento: fette biscottate

Quando penso alla marmellata è indubbio che mi venga in mente la colazione, non si scappa. Se la fetta biscottata è integrale ancora meglio, un contrasto un po’ diverso e sempre meno dolce. Pensa te, faccio la confettura di pere e mi ritrovo a spegnerne la naturale dolcezza con duemila espedienti. Devo essere scemo.

Il mega-oroscopo

19 Mar

Evoluzioni recenti della mia esistenza hanno voluto che decidessi di rimettere in gioco tutta una serie di affermazioni che avevo ben fissato nella mente, nonché una processione di abitudini alimentari/professionali/velleitarie che a loro volta si sommavano e coralmente si autoproclamavano tran-tran. Abitudine, riproduzione sistematica di attività e movimenti programmati nell’arco temporale prestabilito dal soggetto (io).

Esisteva nel 2011 – lo so – un oroscopo ipotetico raccontato su qualche rivista di tendenza tipo Vanity Fair che faceva da sibilla della mia esistenza, almeno per l’anno seguente. Questo mega-oroscopo incentrato sul 2012 diceva sostanzialmente che “i nati Toro alla fine della seconda decade posseggono nelle proprie tasche una manciata sparuta di stellette da appiccicare sulla canonica trimurti Amore-Lavoro-Soldi. A voi la scelta di quante metterne e dove, determinando lo sbilanciamento dei prossimi 365 giorni”.

Bellamente ho deciso di far carriera, perciò le ho messe così: Amore * / Lavoro ** / Soldi **

Con il senno di poi è così che è andata davvero: poca passionalità e più soddisfazioni a lavoro. Soddisfazioni che – diciamocelo – sono arrivate sotto forme non complete ma sufficientemente appaganti.

Il fatto è che non mi è bastato. Una volta raggiunto un livello di soddisfazione adeguato su alcuni fronti, inevitabilmente vuoi riempire anche gli altri vasetti di marmellata e non lasciarli mezzi vuoti solo perché hai finito la materia prima. Aspetto ancora che l’oroscopo del 2013 mi riveli l’esistenza di qualche altra stelletta adesiva da appiccicare dove dico io; ed ammetto un po’  malincuore di volerla mettere su quella voce ancora così sbilanciata che inizia per A (e non è Adipe, che di quello ne ho abbastanza). Poco sopporto scendere a patti con i sentimenti, specie se sono io a doverli esprimere o ad ammettere che ne sento la mancanza, eppure sospiro.
Una lama a doppio taglio. In questo gioco di incastri e di vasi comunicanti, in questa grossa cucina che non sa quanta marmellata cucinare, cosa succederebbe se, con l’ansia di fare troppo, finissero i vasetti? E se un giorno d’un tratto mi ritrovassi con più stellette che spazi per appiccicarli? Di che cosa sarò in grado di fare a meno?
Sarà meglio che io vada a comprare un po’ di frutta.

Torta di semolino

4 Mar

TORTA DI SEMOLINO

Tempo: 2 ore o poco meno

La maggior parte del tempo verrà occupata dal tempo di riposo della frolla, per il resto la preparazione è rapidissima.

Difficoltà: bassa

Qui si tratta solo di mettere assieme tre composti diversi (frolla, pappa di semolino e copertura), una semplice stratificazione che – al massimo – richiederà una punta di rapidità nel lavorare il semolino caldo.

Costo: medio-basso

Penso che la cosa più costosa qui sia la ricotta che mantiene comunque prezzi contenuti. Il resto è tutta materia prima che un cuoco abituale ha in casa. A parte il semolino forse.

Ingredienti

Per la frolla:

– 125 grammi di farina 00

– 75 grammi di burro

– 100 grammi di zucchero semolato

– 3 tuorli d’uovo

– un pizzico di sale

– zeste di limone

Per la pappa di semolino:

– 125 grammi di semolino

– mezzo litro di latte intero

– 200 grammi di zucchero semolato

– buccia di mezza arancia

– 350 grammi di ricotta fresca

 

Ah, il semolino! Direi che questo prodotto è un buon discrimine che allontana la mia generazione dal quella dei miei genitori. Oggi lo si usa poco (pochissimo) ma un tempo la cucina tradizionale era solita utilizzarlo come materia prima di sostentamento. In verità tutt’ora utilizziamo la semola nella produzione classica, essendo questa null’altro che la farina derivata dal grano duro (mentre si usa il termine generico di farina per indicare quella classica di grano tenero). Il semolino deriva sostanzialmente da un’ulteriore macinazione della semola, riducendone pertanto la sgranatura (la grandezza del chicco).

La ricetta che vi propongo oggi è di derivazione toscana, prevede l’utilizzo del semolino come principale protagonista della farcitura, arricchita da alcuni elementi aromatizzanti, come la buccia d’arancia. Infine, è possibile fare una copertura della torta di semolino, a vostro completo piacimento.

Torta di semolino

Torta di semolino

Bene, cominciamo dalla frolla. La preparazione della base è molto semplice: uniamo farina, zucchero, sale, burro e la buccia di limone, impastando sfarinando il composto fino a giungere ad uno sbriciolato (un po’ come proponevo in chiave diversa qui). Adesso aggiungiamo i tuorli e impastiamo fino a creare la classica palla gialla e compatta. In verità questa volta il burro non sarà un potentissimo collante, lasciando il composto leggermente più ruvido e tendente a disgregazione. Il risultato sarà però una frolla delicata e farinosa. Adesso incartiamola nel cellophane e riponiamola in frigorifero per un’ora, deve riposare.

La pappa di semolino invece non ha bisogno di riposo, anzi, deve essere fatta abbastanza in fretta, sennò il semolino cotto si rapprende e diventa un pezzo di marmo, compromettendo la delicatezza della farcitura. Insomma, non vorrei mai vedervi costretti a passare il semolino nel passapomodori per sgranarlo. Attendiamo pertanto una mezz’ora, quaranta minuti e poi iniziamo a fare la crema. Mettiamo sul fuoco il latte a fiamma moderata, prendiamo a parte la ricotta e mescoliamola allo zucchero, al quale va poi aggiunta la buccia di arancia. Quando il latte sta per bollire, mettiamoci dentro il semolino e mescoliamo in fretta. Questo assorbirà rapidamente tutto il latte e si indurirà leggermente. Continuiamo a mescolare energicamente fino a che il composto non inizierà a staccarsi dalle pareti del pentolino. A questo punto leviamolo e, ancora caldo, versiamolo sulla ricotta “arricchita”. Mescoliamo nuovamente e lasciamo leggermente riposare.

Stendiamo la frolla ad un’altezza pari a 6-7 millimetri, soprattutto se, come me, utilizzate una classica teglia tonda da 26 cm di diametro. Nel caso ne usaste una più piccola (per ottenere un dolce più alto), alzate la frolla a un centimetro. Ricordate però che, a tortiera più piccola corrisponde cottura più difficoltosa soprattutto al centro del dolce. Bene, dopo aver steso la frolla versateci sopra il composto di semolino, livellate per bene e mettete in forno a 160-170° per 45-50 minuti.

La copertura. Ricordo che io feci una classica stratificazione di cioccolato, una cosa semplice. Per questo basta prendere 200 grammi di cioccolato e 100 ml di panna fresca, sciogliere il cioccolato, metterci sopra la panna calda e mescolare. Questa specie di ganache va messa sul dolce raffreddato e lasciata solidificare per un’oretta. Poi ecco, potete mangiarla!

Accompagnamento: pensieri sparsi

Non me la sento di accompagnare questa torta a qualcosa da bere, non ha senso, soprattutto per come è scaturito il ricordo. Il semolino rappresenta per me la tradizione, il calore della casa e un passato indefinito che in qualche modo mi dà sicurezza. Placida tornava a casa e trovava la mamma con la torta pronta; io in qualche modo faccio lo stesso.

Considerazioni finali

Come avete visto non c’è nulla di difficile nel dolce, basta un po’ di velocità. Il semolino è un prodotto dal gusto non troppo acceso che ben si presta a fare da legante tra altri elementi, come in questo caso la buccia d’arancia e la copertura di cioccolato. Oltretutto, data la trasmissibilità di sapori del semolino, consiglio di non eccedere troppo negli aromi, a meno che non siate degli amanti di qualche particolare elemento. Ad esempio, io consiglio di mettere lo zeste di mezza arancia e non una intera, proprio per non accentuarne troppo la presenza. La frolla no, copre tutto, il limone si sentirà ma mica tanto. Un’ultima cosa: come dicevo la copertura è a piacimento, ad esempio si può fare qualcosa con la frutta secca, delle noci sarebbero l’ideale per dare un po’ di croccantezza (magari sostituite l’arancia con altro, che so, una goccia di aroma di mandorla oppure delle mandorle sbriciolate nell’impasto). Ci sono diverse varianti da provare. Se avete idee proponete!

Placida nelle strade degli assassini

2 Mar

Stanco da due giornate di lavoro massacranti, ieri sera ho deciso di aggregarmi ad un gruppo di amici che avevano organizzato una tranquilla serata casalinga all’insegna delle chiacchiere e di qualche bicchiere di vino. Tralasciando il fatto che ho seguito solo un decimo delle conversazioni causa pennichella involontaria sul divano (la stanchezza), abbiamo passato il tempo giocando ad un classicone dei videogiochi picchiaduro. Dicesi picchiaduro quel genere che contempla esclusivamente la pressione compulsiva e spasmodica di tasti a caso sul joystick, al fine di corcare di botte l’alter-ego tutto muscoli e tecnica del tuo amico seduto a fianco, il quale sta tentando di fare altrettanto. Diciamolo, è l’alternativa alla partita di calcio: goliardia, campanilismo e quasi totale incomprensione delle meccaniche di gioco.

Lo ripeto, ho seguito (e contribuito) poco alla serata, ero stanco morto. Tuttavia il tornare a certe origine della mia affiliazione videoludica è stato un po’ come tornare indietro nel tempo a quando, pre-adolescente, amavo molto anche io farmi venire i calli sui polpastrelli e sui palmi delle mani per far funzionare il controller. Sì dai, è stato bello.

Poco dopo l’una di notte abbiamo deciso che non ero l’unico ad essere assonnato e abbiamo perciò chiuso la serata, decidendo di tornare a casa. Ora, piccola digressione sul percorso di ritorno.

Placida attraversa la strada

Placida attraversa la strada

Tralasciando le mie capacità artistiche, focalizziamoci sui contenuti. Il punto A rappresenta la casa degli amici, il punto B invece è casa mia. La linea rossa invece è il percorso effettuato, con tanto di nomi di vie e piazze. Ora, per chi non conoscesse Bologna, la zona di via Zamboni et adiacenze è considerata come quartiere universitario, laddove sono presenti un buon 50-60% delle facoltà. Insomma, ci bazzica laggente ggiovane per intendersi.

Vuoi l’annuncio di primavera, vuoi la mia stanchezza che ottenebrava i sensi, vuoi l’euforia del fine settimana, mi sono sentito come in un quartiere malfamato di NYC. A parte gli schiamazzi e le canzoni cantate da gruppi di ragazzi il cui tasso alcolico era decisamente superiore alla mia età, citiamo solo tre incontri particolari:

– ragazzo finto-rapper-vero-pazzo che tira un calcio alla bici del mio amico, bestemmiando e inveendo contro presunti froci mondiali, palesemente strafatto (occhio a palla, iniettato di sangue, nevrotico, movimenti a scatto), desideroso di fare a botte;

– rissa tra “amici” che sempre amichevolmente decidono di prendersi a bottigliate di birra in testa, riuscendo per altro a spaccarne un paio. Non abbiamo visto sangue perché abbiamo cambiato strada, però ecco, secondo me qualcosa per terra lo hanno lasciato;

– tre ragazze chiaramente ebbre che cantando abbracciate sotto un portico decidono involontariamente di perdere l’equilibrio e di crollare contro una colonna, facendo giungere a destinazione prima di tutto la testa di una delle tre, la quale ha prodotto un suono sordo di capocciata galattica non necessariamente mortale ma sicuramente rammentata dalla vittima nei prossimi giorni (e probabilmente anche dal chirurgo che l’ha cucita stanotte).

Per dirla tutta insomma, mi sono sentito come quel personaggio protagonista di una delle storie di Pinin Carpi (per chi non sapesse di chi sto parlando, Santa Wiki ci viene incontro), Placida, la ragazzina che si muoveva in mezzo al quartiere peggiore della città per tornare a casa. Là incontrava le peggio persone e vedeva le peggio cose ma lei nulla, non si scomponeva e proseguiva dritta con il candore e la curiosità dei bambini, facendo domande e dando risposte del tutto umane alle pulsioni assassine dei suoi contrapposti.

A casa l’aspettava ovviamente la mamma, con la cena pronta e la torta fatta, a brillante e luminosa conclusione di un percorso fatto di buio e cattiveria.

Così come la mamma di Placida, anche io farò una torta che possa in qualche modo calmare gli animi turbolenti della serata di ieri. Ho visto i miei assassini dileguarsi di fronte al pensiero di una torta semplice che ho fatto recentemente e della quale non avevo ancora capito il senso.

P.S. per chi non conoscesse il libro, consiglio vivamente di fare un tuffo ne “Il Libro delle Storie Corte”, una bella raccolta di racconti di Pinin Carpi. Un insieme di storie brevi piene di personaggi buffi e solo superficialmente incongruenti, che fanno cose strane ma logiche. Lo stile è asciutto e scorrevole, un libro per bambini ma che parla al futuro adulto senza avere la pretesa di insegnare nulla di teorico ma di far vedere in chiave metaforica che non esiste solo il bene e soprattutto che non necessariamente è il fine.

P.P.S. i disegni sono molto belli, schizzi di colore e linee tremule, tutto opera dello stesso Carpi.

Costa poco, almeno a quanto ho visto io.

Pinin CarpiIl Libro delle Storie CorteNuove Edizioni Romani – Roma 1993

Illustrazioni di Pinin Carpi e Marilena Rescaldani

Torrone morbido

24 Dic

TORRONE MORBIDO

Tempo: 3 ore e 30 minuti

Vi ho fregati: il dolce è banale ma la preparazione lunga e precisa.

Difficoltà: alta

Vi ho fregati di nuovo: c’è da stare attenti coi tempi, con le temperature, con il dosaggio degli ingredienti. Insomma, c’è da spazientirsi. Si sa, Natale vuole che ci si cimenti con dolci elaborati.

Costo: medio-basso

Vi frego per la terza volta: a dolce complesso non sempre corrisponde un costo elevato. Qui le uniche cose che costano sono le mandorle (e i pistacchi), per il resto son tutti prodotti di base. Massimo massimo andate a spendere una decina di euro.

Ingredienti

– 100 ml di acqua

– 200 grammi di miele (qualsiasi tipo, decidete voi)

– 200 grammi di zucchero semolato

– 300 grammi di mandorle

– 150 grammi di pistacchi

– 2/3 albumi d’uovo

– fogli di ostia

Benissimo, avevamo parlato di un dolce banale ed eccolo qua: il classicissimo torrone morbido; ma prima della ricetta un po’ di storia.

Come accade per le parole di uso comune, tutti i dolci più conosciuti e semplici hanno origini brumose. Alcuni dicono che il torrone derivi dal Torrazzo, torre campanaria della città di Cremona, dove pare sia comparso per la prima volta nel primo Rinascimento (clamoroso periodo di sperimentazioni culinarie, non come il pan di spagna, di cui abbiamo già parlato, che viene ben tre secoli dopo); altri vogliono che invece derivi dal latino torreo (abbrustolire), ma anche dall’arabo turun. Insomma, fatto sta che nessuno davvero sa da dove venga sto torrone maledetto. Io personalmente propendo per la versione araba/orientale, se non altro per la fortissima presenza di prodotti tipici dei territori asiatici, il miele e la frutta secca, ampiamente usati nella pasticceria turca. Nulla ci vieta di pensare che la mandorla (tipicamente orientale) sia stata generosamente arricchita dagli Arabi che in seguito hanno influenzato la cucina dell’Occidente, durante le loro conquiste.

Bando alle ciance, iniziamo. Per prima cosa mettiamo sul fuoco il miele a bagnomaria e lasciamo che cuocia per un’ora e mezza, mescolando di tanto in tanto. Una mezz’ora prima del termine della cottura, andiamo a creare uno sciroppo unendo su un altro fuoco l’acqua e lo zucchero. Portiamoli a bollore controllando accuratamente la temperatura, la quale non deve superare i 140°. Muniamoci di un termometro da dolci, il quale ha un costo non troppo elevato (si aggira tra i 10 ed i 20 euro per chi fosse interessato). Se cucinate con solerzia sicuramente ne avrete bisogno, non esitate ad acquistarlo. Del resto, se state prendendo in seria considerazione l’idea di fare il torrone come dolce vuol dire che siete cuochi metodici, perciò sì, ecco, compratevelo.

Molto bene. Quando la temperatura dello sciroppo raggiunge i 100°, agevolatevi cominciando a montare a neve fermissima i bianchi d’uovo, possibilmente con l’aiuto di qualcuno. Dico questo perché avrete bisogno di entrambe le mani libere per effettuare il passaggio successivo. Infatti non appena si sarà creato il composto a neve, versate a filo sugli albumi prima il miele e poi lo sciroppo di zucchero. Continuate a sbattere finché non inizierà ad indurirsi.

A questo punto ritagliate i fogli di ostia secondo la dimensione base del contenitore che volete utilizzare. Anzi, tagliatene subito due, uno per la base e uno per la sommità. Mentre il composto monta ulteriormente, sminuzzate a pezzi grossolani sia le mandorle che i pistacchi ed uniteli all’amalgama, opportunamente quando il tutto sarà ben montato, altrimenti si incastrerà tutto nelle fruste.

Adagiate quindi il foglio di ostia sulla base del contenitore, versate il composto, livellatelo e infine ricoprite con un secondo foglio di ostia. Ponete in frigorifero almeno almeno 3 ore e poi potrete tranquillamente tagliarlo e papparvelo.

Considerazioni finali

Esistono sostanzialmente due varianti del torrone: morbido e duro. La differenza base per ottenere il primo o il secondo sta nei tempi di cottura. Se avete una notte da perdere e volete un torrone spacca denti, andate a cuocere il miele per 12 ore, vi divertirete, giuro. Almeno finché non inizierete ad avere le visioni alle 4 di mattina, dopo aver passato le precedenti cinque ore a guardare repliche di Sentieri sui Rete4. Per la prima versione, ovvero quella da me adottata, basteranno sostanzialmente due ore di cottura, minuto più, minuto meno.

Inoltre la cosa bella di questo dolce è che, nel limite della frutta secca, potrete sbizzarrirvi sul contenuto. Io ho usato mandorle e pistacchi perché danno colore ma voi potete usare pinoli, nocciole, uva americana e – perché no – pure albicocche disidratate. Tanto il dolce è pesante, andiamo fino in fondo.

Accompagnamento: mazzo di carte del Mercante in fiera

Il torrone è l’ultimissima cosa che si ingurgita al pranzo di Natale, quella cosa per il quale serve obbligatoriamente il secondo stomaco. Non bevete nulla, è inutile. Piuttosto sgranocchiatelo mentre fate le vostre puntate al Mercante in fiera, altro classicone natalizio. Lo ammetto, a me fa sempre piacere pensarci, forse quest’anno replichiamo e ci faremo delle grosse partite. Tanto so che la mia carta simbolo è l’Asino, mentre io vorrei tanto essere l’Ancella o la Paradisea. Voi che carta siete?

Il Santo Banale

19 Dic

Ci risiamo, ogni blogger che si voglia reputare tale si sente in dovere di raccontare qualcosa sotto le feste. Manca poco al 25 dicembre; già speriamo di vedere all’orizzonte il caro buon vecchio Babbo Natale intento a trascinarsi dietro un saccone pieno di regali, sempre che una tromba d’aria non se lo porti via il 21 corrente mese.

Lo ammetto, io sul Natale ho davvero poco da dichiarare, se non che con il passare del tempo e l’aumentare delle responsabilità che la vita adulta comporta, ho iniziato a sentirlo sempre meno come una festa e più come un giorno di ferie comandato. Sì, perché tutto sommato quando hai un lavoro che ti occupa una fetta importante della tua quotidianità, avere un giorno di ferie ha quel senso di criogenia del tran tran che un po’ ti disgusta. Io ad esempio non so mai cosa fare: i negozi sono chiusi, fa freddo, gli amici stanno in famiglia (la mia è lontana), la tv non dà nulla di buono (Bambi? Ancora?), la neve puntualmente non scende a farmi sospirare di pace e amenità tutte.

Ogni anno poi è sempre la stessa storia, la corsa ai regali, le occasioni imperdibili, la comparazione delle lucette natalizie di quest’anno con quelle dell’anno scorso. Alla fine, che cos’è il Natale se non un’esposizione di paramenti commercialmente sacri, una viatico messianico verso la più classica delle conclusioni (ovvero il cenone)? Da qualche tempo a questa parte tratto questa festività come una brutta omelia già sentita, l’ennesimo episodio di Miracolo sulla 34a strada trasmesso di pomeriggio su Italia 1.

Sbuffiamo, suvvia, non c’è nulla di male nel farlo, nel lamentarsi un po’ di tutta questa bontà imposta (altro cliché, lo ammetto). Alla fine si tratta pur sempre di una festa dedicata ad un santo (Nicola di Bari, non il cantante ma quello delle tre palle d’oro, per chi non lo sapesse qui e qui due spiegazioni del mito del santo), un po’ stereotipato, un po’ cristallizzato, un po’ banale. Ecco sì, un Santo Banale.

Come il santo, pure io vi proporrò un dolce banale, un tipico prodotto della tradizione natalizia.

Scontato!

9 Dic

Dopo un paio di mesi torno a scrivere di cucina. Due le domande. Perché hai deciso di andartene? La prima risposta è semplice: non avevo nulla da dire, niente che significasse qualcosa di sufficientemente personale ma non troppo condivisibile; e poi ho lavorato molto, ho fatto e disfatto, ahimè lontano dai fornelli. Bisogna sacrificare qualcosa ma non è mai per sempre.

La seconda domanda sorge altrettanto spontanea, perché hai deciso di tornare? La risposta è molto simile alla prima, torno ad avere qualcosa da spiegare. Questa volta però non lo faccio con spirito di condivisione, bensì come risposta ad un affronto perpetrato a lungo, sottile e muto, un coltello che non ha riflesso la luce e si è avvicinato al buio, punzecchiandomi.

La verità è che mi sono reso conto di essere molto ripetitivo, lento e prevedibile. In altre parole, risulto scontato. Non solo ciò che faccio viene comunicato più velocemente delle mie stesse azioni, ma  altrettanto disarmante è il fatto che i miei discorsi sono una serie di “già detto”, “già fatto” e “già visto”. Mi sembra di camminare talmente lento da farmi superare persino da me stesso, se solo ne fossi capace.

Scrivo apposta questo articolo, dedicandolo ad un dolce classicissimo e, come me, scontato. Per farvela sotto il naso, ci aggiungo una serie di accorgimenti che renderanno il risultato migliore del solito, augurandomi e minacciandovi: un giorno saprò raccontarvi cose che nessuno di voi si sarebbe aspettato.

TORTA DI MELE

Tempo: 90 min.

A farla ci vuole niente, a cuocerla invece perderete tempo. Meglio, il vostro forno perderà tempo, dato l’elevata quantità di mele e quindi il copioso rilascio di succo. Potrete terminare la cottura in anticipo, ma ve lo spiegherò dopo.

Difficoltà: 3 su 10

Più facile di così non esiste, bisogna mettere quasi tutto assieme. State attenti a sbucciare solo le mele e non le vostre dita.

Costo: basso

Le mele costano poco, soprattutto dato che si sta parlando di torte invernali e la frutta in questione è sostanzialmente di stagione in periodi freddi. La farina si compra così, con meno di un euro.

Ingredienti

– 125 grammi di burro

– 250 grammi di farina 00

– 2 zeste di limone

– 125 grammi di zucchero

– 3 uova

– 150 ml di latte

– 1000 grammi di mele (a vostra scelta)

– una pera kaiser

– lievito per dolci

– cannella in polvere

– zucchero di canna

– vanillina

– un pizzico di sale

Molto bene, iniziamo. La base è facile facile, mettete assieme burro, zucchero, uova, vanillina e sale. Sbattete forte finché non ne uscirà un composto piuttosto grumoso (è il burro, sappiatelo). Non allarmatevi, è così che deve venire per ora.

A questo punto aggiungete la farina al composto, alternandola al latte. Infine aggiungiamo la buccia grattuggiata dei due limoni, altresì detti zeste, e il lievito per dolci. Il risultato finale sarà una specie di crema piuttosto appiccicosa, l’ideale colla per tenere insieme le mele. Diciamola tutta: qui la base è un gran bel pretesto per far stare in un posto solo una quantità imbarazzante di frutta.

Infatti adesso ci tocca il lavoro duro: arrotoliamo le maniche, laviamoci le mani e cominciamo a sbucciare le mele, privandole pure del torsolo centrale. Attenzione, tenete da parte 3-4 semini interni, ci serviranno dopo. Sbucciate anche la pera e tagliate tutta la frutta a lamelle o a pezzetti abbastanza piccoli. Più sono minuscoli e prima si cuoceranno. Sbattete ora mele e pera nel composto colloso, dateci dentro con le braccia e mescolate, mescolate, mescolate. Infine, metteteci dentro anche i semini di mela.

Imburrate una teglia di 28 cm di diametro (bella larga, così cuoce meglio), infarinatela e versateci il composto. Cospargete la superficie di zucchero di canna e cannella in polvere. Non tanto, solo per dare colore. Ora infilatela in forno a 180° per un minimo di 60 minuti. Voilà, è pronta.

Torta di mele

Torta di mele

 

Considerazioni finali

Seppur non visibili, questa ricetta è piena di minuscoli accorgimenti che la rendono speciale. Mo ve li dico:

– scelta delle mele: è imbarazzante andare al supermercato e vedere chilometri di ceste piene di quaranta tipi di mele diverse. Io ve ne indico solo una, la renetta. E’ dolce, di mede dimensioni, dalla pelle ruvida, porosa e giallastra, tendente al marrone chiaro. Risulta dolcina ma non troppo e soprattutto si scioglie molto in fretta.

– le pere: per esaltare il sapore pastoso della mela, ci serve qualcosa che la contrasti ed ecco arrivare in nostro aiuto una bella pera. Ho scelto la kaiser perché è molto farinosa, corposa nella dolcezza e poco compatta. Come la renetta, si scioglie facilmente e irrora tutta la torta del suo sapore. Fatene buon uso, potete anche non metterla se non vi piace. Comunque sia, provate sia con che senza, mi direte.

– i semini: il vero gioco forza della torta sta nel profumo che invaderà casa. Allora se dobbiamo fare le cose, che almeno siano fatte per bene. I semi di mela sono una vera bomba in questo caso, ne bastano pochissimi nell’impasto e tutto il condominio annuserà il piacere di una buona torta di mele. La casalinga che è in me già gongola.

– tempi di cottura: come dicevo prima, cuocere la frutta è difficile, ci vuole molto tempo e tanta pazienza affinché il resto dell’impasto non bruci. Perciò alcuni accorgimenti, come aumentare il diametro della tortiera, oppure tenere una temperatura del forno più bassa per tempi prolungati, coprire la superficie con della stagnola se vediamo che imbrunisce troppo in fretta, tagliare la frutta in pezzi molto piccoli prima di metterla nell’impasto; insomma, cose così.

– croccante e saporito: vi ho fatto mettere cannella e zucchero sulla superficie. Alla fine della cottura avrete una bella superficie caramellata, sufficientemente dura da fare un bel contrasto con la soffice pasta interna. Inoltre la cannella dà quel sottile retrogusto secco-amaro che sta bene con il dolce della mela.

Accompagnamento: tè affumicato

Mi piace pensare che il contrasto sia una chicca in cucina. Vi propongo perciò di bere un tè affumicato sul legno di qualche albero particolare, tipo l’albicocco, che tanto fa strano. In commercio non ne esistono in bustina, vi sfido perciò a trovare un rivenditore di tè sfusi, sicuramente lì ne troverete una variante.

Sintomatologia della metropoli

12 Set

Milano è un medicinale del quale non conosciamo la posologia, non conosciamo il principio attivo, non conosciamo la casa farmaceutica che lo produce; tuttavia, sappiamo perfettamente quali sono gli effetti collaterali. Almeno, io conosco ciò che fa a me.

Sono stato via da Bologna per quattro giorni. Il primo pensiero, seduto in auto è stato “morirò, Milano mi mangerà, verrò dilaniato e mi annoierò”. In verità soffrivo terribilmente il confronto con la grande città, io topolino di quartiere e ancora prima topolino di campagna. Guardando la campagna bolognese trasformarsi lentamente in risaia, in capannoni ed infine in case basse e rarefatte da periferia cittadina, il mio cuore ha cominciato ad acquistare peso. Più macinavamo km, più sentivo cedere la mia corazza. Milano ha sempre avuto questo strano effetto su di me, saranno tutti i ricordi che mi legano ad essa, le prime esperienze professionali e sentimentali, le prime uscite da solo, da adolescente.

Sento parlare spesso della grande metropoli lombarda, quasi tutti hanno qualcosa da ridire sul traffico, sul caos che regna nel centro, sul grigiore dei palazzi, sulla pochezza urbanistica dei quartieri, sull’annullamento psicologico che i milanesi si sono auto-indotti per non restare troppo condizionati dal loro affetto per Milano. Ho visto persone storcere il naso soltanto nominando la città, figuriamoci parlarne. Eppure, ho sempre pensato che la magia della metropoli stesse proprio lì, nella sua diplomazia anglosassone spesso scambiata per indifferenza. Ad uno sguardo rapido sembra sempre che il milanese a spasso per la città soffra di una grave forma di opportunismo, io do qualcosa a te SE tu dai qualcosa a me (possibilmente un bel mè con l’accento grave, suono fatto a bocca aperta, la bella e secca di “ecco”). Se guardi meglio però, quell’opportunismo è in verità una forma blanda di sopravvivenza urbana, un delimitare il terreno personale e quello di scambio reciproco. La gente passa e non si guarda, al massimo si scruta l’un l’altro e alla fine, se c’è business, ci si annusa un po’ di più. Non parliamo del mercato dei sentimenti, lì Milano ha le sue regole, che hanno sempre lasciato basito me, piccolo uomo di città più piccola.

Ora, immaginate me, sperduto in città con un’amica/collega, durante la Vogue Fashion Night Out (aka “il delirio”). Migliaia di persone smaliziatissime ed elegantissime che si riversano in strada, musica ovunque, negozi aperti fino a mezzanotte, grandi e piccoli a spasso per le vie illuminate a giorno, aperitivi di stile un po’ dappertutto e bicchieri di champagne in mano a chiunque. Bicchieri di vetro, flute, mica il bicchierino di plastica trasparente della Coop. Aggiungeteci imminente la fame e il disagio di dover trovare un locale per mangiare a prezzo contenuto. A Bologna si direbbe che sono uno sbarbino, a Milano semplicemente un pirla.

Fiori Chiari Plates - Milano

Fiori Chiari Plates – Milano

Consigliato da un amico (grazie Diego), ci rechiamo in via Fiori Chiari, zona Brera, quindi universitaria ma fighetta (in italiano si direbbe “ricercata”). Gallerie d’arte, negozietti non più grandi di una camera da letto e ristoranti. Ci imbattiamo dopo una breve ricerca in Fiori Chiari Plates (il cui sito è visitabile qui); di primo acchito non lo noteresti, doppia vetrina, qualche pianta all’esterno, la solita piantana con sopra il menu aperto sui piatti principali. Eppure, quando entri, l’atmosfera cambia: due piani di cui uno soppalcato a vista, stile coloniale sui toni del marrone, lampadari in legno, musica soft. A piano terra la tendenza è quella di creare grosse tavolate, unire i gruppi e dare quell’idea di “volemosebbene” stile rivista patinata di moda, convivialità ben vestita. Al secondo piano invece, vuoi per mancanza di spazio, i tavoli sono per due, massimo quattro persone, quadretti di stampe in b/n alle pareti, oggettini di latta arrugginita senza il rischio del tetano.

Il menu ci stupisce un po’: questi ristoratori hanno puntato sulla tradizione della cucina regionale italiana, rivolgendosi prevalentemente agli antipasti di salumi ed alle prime portate. Di secondi nemmeno l’ombra, sempre che non si voglia considerare un’insalata mista un secondo piatto. Gli antipasti sono prevalentemente formati da taglieri di salumi, accompagnati dal classico gnocco fritto. Friuli, appennino tosco-emiliano e Lombardia si fanno strada sulle tavole offrendo il meglio della produzione regionale, senza stufare troppo (anche il tagliere piccolo è in verità un piatto da portata per quantità di materia prima). I primi piatti invece sono prevalentemente di terra, si prediligono gusti delicati provenienti dalle regioni del nord Italia, con qualche puntata campana. Niente secondi piatti, solo dolci fatti in casa e rigorosamente italiani. In aggiunta, lo staff è cordiale e attento (si sono sbagliati con il mio primo piatto e si sono scusati quattro volte, tra cui l’ultima sulla porta del locale a fine pasto, ho apprezzato non ci abbiano offerto il caffè per rimediare).

Fiori Chiari Plates - Milano

Fiori Chiari Plates – Milano

Il nostro tavolo ha visto arrivare prima un tagliere di salumi friulani (salame alle noci, pancetta alla lavanda, dolcissimo prosciutto crudo del Sulcis), le cui quantità rasentavano davvero il piatto unico. Pazienza, dividiamo in due il prodotto e tra un mugugno e l’altro puliamo il piatto. All’antipasto segue il primo: per me una vellutata di patate e porri, per la mia amica invece un meraviglioso piatto di spaghetti alla chitarra con menta, limone, formaggio stagionato grattato sopra e un poco di panna, giusto per mantecare. Che invidia: i sapori erano delicatissimi, ti arrivavano assieme il profumo della menta ed il sapore del limone, una volta messo in bocca. Porzioni abbondanti senza strafare, un ottimo esempio di cucina da bistrot ricercato. Terminiamo con una semplice caprese, delicata, morbida, non la migliore che io abbia mangiato (sfido, un dolce campano mangiato a Milano è decisamente rischioso come una mano di poker). Prezzi? Incredibile rapporto qualità/prezzo, calcolando la zona e la città dall’alta qualità della vita. Meno di 20 euro a testa, senza vino ma con tre acque e una coca cola (ahia).

Promosso, sicuramente. Fateci un salto se capitate a Milano, è un locale adatto un po’ a tutte le età.

Torta agli amaretti

5 Set

Come annunciato, questa è la ricetta di mia nonna Giuditta. E’ sostanzialmente un classico intramontabile, semplice, gustoso senza essere stomachevole. Ogni volta che mia nonna la cucinava per le feste patronali era un successo a Scaldasole.

Torta agli amaretti - Il protagonista

Torta agli amaretti – Il protagonista

Tempo: 80 minuti

Veloce, molto veloce. Anche i tempi di cottura sono ridotti. Vedrete.

Difficoltà: bassa

Come ogni torta classica che si rispetti, è semplice e rapida. Pochi ingredienti, questa volta arricchiti dal cioccolato e dagli amaretti.

Costo: medio-basso

Meno di una decina di ingredienti, tutti di facilissima reperibilità.

Ingredienti

– 150g di zucchero semolato

– 150g di farina tipo 00

– 100g di cioccolato fondente

– 200g di amaretti

– 4 uova

– 200g di burro a temperatura ambiente

– una bustina di lievito vanigliato

Cominciamo. Prendete il burro e tagliatelo a dadini. In verità potreste anche tagliarlo a pezzi grossolani, oppure pigliarlo intero ma anche intagliare il panetto a forma di panda; vi dico, più piccoli sono i pezzi e più facilità avrete nel lavorarlo. Unite lo zucchero e sbattete il composto fino a trasformarlo in crema. Separate ora i tuorli dagli albumi ed unite i primi al composto, uno alla volta, impegnandosi nel farli assorbire per bene dalla crema di burro. A questo punto sbriciolate gli amaretti e grattuggiate il cioccolato fondente. Certo, grattuggiare una tavoletta di cioccolato non è semplicissimo, vi si potrebbe squagliare in mano in due secondi. Poco male, troviamo il metodo alternativo: rompiamo la tavoletta in pezzi grossolani, prendiamo il coltello a lama sottile più grande che avete e, tenendo ferma la punta con il palmo della mano cominciamo a sminuzzare il cioccolato. Basteranno pochi secondi, se riuscite a non spargerlo fuori dal tagliere.

Torta agli amaretti - Gli ingredienti

Torta agli amaretti – Gli ingredienti

Uniamo il nuovo grattuggiato al composto assieme agli amaretti e mescoliamo per amalgamare. Il nuovo insieme sarà parecchio duro, lavoriamo di gran lena e prepariamoci ad avere un po’ di male alle braccia. Come se non bastasse, ora uniamo anche la farina setacciata. Possiamo lavorare il composto con le mani adesso, avrà la consistenza della pasta da biscotto. Per rendere più morbido il tutto, montiamo gli albumi a neve fermissima e mescoliamolo al composto. Non troppo forte o gli albumi di smonteranno.

Imburriamo una tortiera da 24cm di diametro (o 26, dipende da quanto la vogliamo alta), infariniamola, ficchiamoci dentro il composto, livelliamolo e mettiamolo in forno a 160° per una quarantina di minuti. La torta, una volta sfornata, va fatta raffreddare per bene.

Considerazioni finali

Facile vero? Non c’è nulla di complesso in questa preparazione. E’ semplice anche nella cottura, nessuna umidità

Torta agli amaretti - La fetta finale

Torta agli amaretti – La fetta finale

aggiuntiva rispetto a quella che c’è già in forno. Rimane piuttosto friabile, soprattutto la crosticina che si forma a cottura ultimata. Da servire rigorosamente per le occasioni tra buoni amici senza troppe pretese di raffinatezza. Mi rendo conto sia un dolce invernale, ma gli omaggi alle persone speciali non hanno davvero tempo.

Accompagnamento: malvasia

Un vino liquoroso molto saporito, che ben si accompagna alla dolcezza dell’impasto.

L’occhio del lupo

3 Set

L’inverno in Pianura Padana è freddo non tanto per le temperature rigide, piuttosto per la presenza costante di una fitta coltre di nebbia e di un’umidità talmente elevata da penetrarti nelle ossa e offuscarti persino la vista, dal di dentro. L’unico modo per sopravvivere è rimanere in casa, al caldo di un camino oppure sotto le coperte, in un letto. Figuriamoci se un bambino di sette anni si lascia sfuggire l’occasione di assaporare il tepore di un materasso di vere piume d’oca, come li facevano una volta, cuciti a mano e tanto polverosi da sembrare loro stessi una nuvola di acari. Io sto lì, rannicchiato, nascosto, confuso tra le lenzuola ed un cuscino grande tanto quanto me, anche quello fatto a mano e pieno di piume d’oca caldissime e sofficissime. Tutto intorno a me la luce si muove piano, emanata da un’abat-jour che è sempre stata lì da quando sono nato; una luce soffocata dal tessuto grezzo di un paralume industriale, che tanto andava di moda all’inizio degli anni ’90.

E’ tardi, tardissimo, secondo la mia mente di bambino. Il buio è tutt’attorno a noi, al di là della luce, oltre quelle due finestre che ricamano gli spessi muri di una casa padronale, nel piccolo paese della Pianura. Una stanza enorme, sempre ai miei occhi di bambino. Quel chiarore che la lampada emana è debole, arriva a malapena fino ai piedi del letto, oltre scorgo le sagome mastodontiche del grande armadio in noce che tiene tutta la parete di fondo. Laggiù quello scricchiola e riposa immobile, respira sommessamente ed io con lui inspiro ed espiro piano, senza fare rumore. Lo fisso, ma solo ogni tanto, perché ho paura che prima o poi salti fuori qualcosa.

Una mano si posa sulla mia, è calda, la pelle raggrinzita. Mi è familiare, nonna. La mia mano, contenuta nella sua, si alza verso il soffitto di legno a travi imponenti, larghe quanto me. Avranno 200 anni. Il mio dito indice si allunga ad indicare i segni del legno, nodi che conosco, storie che voglio sentirmi raccontare di nuovo. – Vedi là – dice la nonna, – quello è l’occhio del gufo. E laggiù – indicando uno spazio più lontano, meno illuminato – quello invece è l’occhio della faina. –

Silenzio, ma solo per un attimo. Il mio dito rimane puntato al soffitto, la punta dell’indice diventa fredda per la paura che da un momento all’altro quell’occhio là, quello che mi ha fatto vedere la nonna prima, si trasformi davvero nel bulbo oculare di un animale e che mi mangi la falange. Ho paura, ma sono un bambino forte e continuo a tenerlo puntato. – Quello invece è un occhio umano – dice, facendomi vedere un nodo del legno che effettivamente, con un piccolo salto fantastico, può sembrare davvero l’occhio di una persona. – Là invece c’è l’occhio del lupo – indica il punto più distante, quello che vedo più difficilmente perché praticamente al buio, l’occhio che mi fa più paura di tutti. E che ricordo con maggiore vividezza.

Questo che vi ho raccontato è il ricordo più forte e più preciso che ho di mia nonna. Tante facce della vita quotidiana mi tornano alla mente quando ci penso, ma del resto, sono stati movimenti fatti senza nemmeno pensarci troppo: un abbraccio, un bacio, i racconti dei compiti a scuola. I nodi del legno invece rappresentavano la sua saggezza, la sua conoscenza del mondo animale che la circondava, in qualche modo il suo passato, solo suo, che non sarebbe mai stato mio perché ero destinato ad un’altra strada, un passato che mi affascinava. Era la saggezza che rendeva il mio orecchio teso alle sue parole, i miei occhi curiosi verso i suoi misteri arcani di contadina, verso i suoi ricordi. Il silenzio di quelle notti rendeva i nostri discorsi speciali, unici, come se stesse rivelandomi qualcosa di imprevedibile; e per me, ogni volta, era davvero così.

Mi hai insegnato tante cose nonna, tante cose pratiche. Come si cucina, come si trattano le persone alle quali si vuole bene, quando c’è da stare zitti e quando si deve parlare. In tutte queste faccende ho trovato, pezzo dopo pezzo, una forza più grande, più forte di ogni singola azione, un’integrità che non pensavo di avere. Ti penso e mi sento forte, mi ricordo chi sono, anche se i contorni del tuo volto cominciano ad offuscarsi nella mia mente. Ti penso e so chi eri, quanto valevi per molte persone che non erano la nostra famiglia, so quali corde vibrano profondamente dentro di me quando penso al tuo nome e le lacrime che verserei pronunciandolo.

Volevo che il mio testo fosse un’omaggio a lei. Il dolce che presento è il SUO dolce, non il mio, ci tengo a precisarlo. Mi limito a copiarne la ricetta così come mi è stata consegnata da lei. Mescolando quegli ingredienti rendo altrettanto omaggio a mia nonna ed al suo ricordo. E’ un dolce buono, è un dolce semplice, ti somiglia, Giuditta.